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Channel: Fiorenzo Sartore – Intravino
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L’etichetta del vino con la spiega. Piace o perplime?

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L’etichetta del vino con la spiega. Piace o perplime?

Come la volete, l’etichetta? Descrittiva o telegrafica? Lunga o corta? Strutturata o delicata? Qualche giorno fa, condividendo sul mio angolo di Facebook l’etichetta che vedete, il dibattito è tornato, ancora una volta, attuale. Del resto proprio recentemente leggevo un commento che richiedeva, per la millesima volta, “gli ingredienti” sull’etichetta di un vino. Che fare?

I contenuti scritti su un’etichetta sono regolamentati in modo abbastanza complesso dalle leggi vigenti (del resto pare inevitabile per la legge dirigere la vita dei consociati in modi che sono sempre e solo complessi). Resta però un ambito più o meno libero nel quale il produttore di vino può inserire altri dati, come quelli che leggiamo nelle immagini.

Ora la domanda è: serve sapere tutto questo? È utile tanta spiegazione? Io propendo fortemente per la risposta affermativa. E per quanto mi riguarda rilevo che c’è un dato, in tutto quel lavoro descrittivo, che va al di là dell’aspetto strettamente tecnico: di fronte a un’etichetta del genere io colgo il desiderio, da parte di chi produce quel vino, di rammentarmi una serie di “ingredienti” che vanno oltre gli aspetti analitici legali (denominazione, annata, grado alcolico, etc).

Quella lunga descrizione mi ricorda quanto di altro, e di profondo, sta dentro una bottiglia di vino – e il desiderio di raccontarlo, che è in capo al produttore, qualifica quel produttore proprio perché ci tiene particolarmente a condividere con me quel racconto.

L’aspetto, come è chiaro, è squisitamente formale. La domanda immediatamente successiva, che attiene alla sostanza, è certamente lecita (“si vabbè ma quel vino com’è?”) – tuttavia qui si parla di forma, ora. Diamo per scontato che quella sostanza sia di buona qualità.

Nello specifico, il barbera monferrino di Rocco di Carpeneto è un campione ben rappresentativo del genere, con acidità molto vivida e la tipica durezza che rende questi vini così gastronomici. Circa quell’azienda e il suo territorio vi rimanderei a quel che scriveva Pietro in questo post. Qui, concedetemelo, per una volta si parla solo di forma.


Dialogo tra un vinofilo e un non so

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Dialogo tra un vinofilo e un non so

Di solito i crediti si mettono alla fine. I link dai quali si prende l’ispirazione, la fonte, o l’immagine, stanno in coda ai post. Stavolta invece comincio da quelli: tempo fa trovo questa immagine condivisa da un amico musicofilo, e mi pare divertente. In effetti ogni ambito più o meno complesso ha settori di maggiore o minore profondità, a seconda che gli utenti abbiano un approccio superficiale ed esterno al tema, oppure ne siano appassionati quindi abbondino con i distinguo.

Pensare a una cosa analoga, riferita al nostro ambito vinoso, è stato facile. Così mi sono divertito a settare un’immagine simile pensando a un ipotetico incontro tra due categorie, scippando anche il titolo a Gaber (più che creatività si tratta di furti, come vedete). Quello che ho chiamato enofilo poteva chiamarsi in molti modi, eno-impallato, eno-competente, alla fine s’è risolto in “dialogo tra un enofilo e un non so”.

L’immagine serviva inizialmente per un innocuo giochetto di condivisione di pic da pagina Facebook, ma a mano a mano che elencavo delle possibili categorie di scelta mi trovavo a scrivere e riscrivere le categorie, e alla fine ero perennemente insoddisfatto. Quindi l’ho lasciato così. Tra i dubbi che mi sono venuti, uno tra tutti era il più terribile: se in definitiva non se la passi meglio il tizio lì a destra, il “non so”.

Com’è il Brunello di Montalcino 2011? Niente male. Tutti i particolari in video

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Com’è il Brunello di Montalcino 2011? Niente male. Tutti i particolari in video

C’è sempre un’anteprima che viene prima delle altre (anteprime). Se non è chiaro il gioco di parole, dovete sapere che assaggiare in anteprima un vino, prima che esca sul mercato, è un privilegio concesso a pochissimi wine-introdotti. Giornalisti, esperti, influencer (scusate la parolaccia), vattelapesca. C’è Benvenuto Brunello, per esempio, che in Italia si tiene a febbraio. E tuttavia accade sempre che qualche giorno prima i soliti raccomandati hanno già assaggiato, e gli altri che non c’erano un po’ si ingrugnano.

(Personalmente, non sono in grado di inseguire quel genere di primato, è al di là delle mie forze. Mi consolo pensando che l’anteprima imbattibile è quella che si concedono i produttori nel segreto delle loro cantine a Montalcino, un minuto dopo che hanno spillato il vino).

In questa allegra corsa all’anticipo c’è anche l’anteprima dell’anteprima dell’anteprima, alla quale hanno partecipato (in anteprima, l’avevate capito già) altri happy few, in questo caso negli Usa. Eccone qua un po’, radunati nel filmato pubblicato oggi da Montalcino News. Ci dicono che la vendemmia 2011 si annuncia bene, forse pronta prima, quindi non sarà un’altra vendemmia del millennio come la 2010 – e menomale, avevamo esaurito le iperboli. Ascoltiamo con deferenza.

[Immagine: Wikipedia]

Il Consorzio Tutela VS Osteria Monte Baldo a Verona: vietato promuovere l’Amarone

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Il Consorzio Tutela VS Osteria Monte Baldo a Verona: vietato promuovere l’Amarone

Tempi duri per gli esercenti. Prendi ad esempio l’Osteria Caffè Monte Baldo a Verona: nei giorni dell’Anteprima Amarone promuove un’iniziativa, intitolata “Fuori Amarone”, con menù specifici in abbinamento al rosso veronese. La cosa però dispiace profondamente al Consorzio per la tutela vini Valpolicella (avete letto bene) che muove i suoi avvocati per diffidare l’osteria: “Sfrutterebbe l’occasione della manifestazione per farsi pubblicità, senza preventivo consenso consortile”.

Avendo infinita fiducia nelle sempre lievi normative che regolano la nostra vita sociale, do un’occhiata al sito del Consorzio alla ricerca di una specifica indicazione che vieti tanta efferata leggerezza, senza successo. Accetto però supinamente il fatto che c’era bisogno di un “preventivo consenso consortile”. La legge ci sarà, ma io non la conosco, quindi è colpa mia. La sanzione ammonterebbe, nel caso, a diecimila euro.

La cosa rimbalza immediatamente sull’Arena, io peraltro la leggo sulla pagina Facebook di Soavemente wine blog. Sorpresa, perplessità, sentimenti contrastanti: scegliete voi come sentirvi. Quanto a me, quando sento il fruscio delle carte bollate so che c’è poco da stare allegri, e anche all’Osteria probabilmente la pensano a quel modo, quindi rinunciano prontamente al contenzioso, annullando tutto. Cercando su google “Fuori Amarone” il link relativo all’evento creato su Facebook mostra un contenuto non disponibile:

Questa invece è l’implacabile memoria cache ancora contenuta nella grande G, tanto per sapere cosa ci siamo persi:

Nota positiva: almeno un produttore rileva, nell’atteggiamento del Consorzio, che non tutto va esattamente nel verso giusto. Secondo Sandro Boscaini (Masi) “il Consorzio sbaglia. Sono proprio i ristoratori e gli esercenti i veri ambasciatori dei nostri grandi vini. [...] Come facciamo noi se i nostri distributori non possono promuovere le bottiglie che acquistano?” – la risposta soffia nel vento, dove risuonano altre formule comunicative che di sicuro non avete mai sentito in vita vostra, come “fare sistema”, per dirne una.

Gran finale: il famigerato Streisand effect in questi casi è sempre dietro l’angolo. Il Consorzio cioè tenta di mettere a tacere un fatto che ritiene spiacevole, ed ottiene un’eco notevolmente maggiore. Se siete in vena di situazionismo burlone, ora potete andare all’Osteria Monte Baldo e bere altro: Barolo, Brunello, Taurasi, fate voi. L’importante è che il Consorzio per la tutela vini Valpolicella non se ne abbia a male.

[Immagine principale: home dell'Osteria Monte Baldo]

Tagadà la tocca piano: “Terre avvelenate per i vitigni del Prosecco”

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Tagadà la tocca piano: “Terre avvelenate per i vitigni del Prosecco”

Se appartenete al gruppo di coloro che non sopportano i talk show in televisione, è possibile che vi siate persi la puntata di Tagadà dello scorso 4 febbraio, su La7. Il fatto che si parlasse di apericena, all’inizio, può aver contribuito in maniera decisiva al vostro zapping. Fate quindi un piccolo sforzo, perché nella puntata un servizio aveva come titolo “Terre avvelenate per i vitigni del Prosecco”. Ho la vostra attenzione, adesso? L’estratto che vedete qua sotto spiega meglio.

Si tratta dell’annosa questione dell’abuso di fitofarmaci nelle aree vitate a prosecco, che sono prossime alle abitazioni. La conduttrice taglia corto: meglio che fitofarmaci, è il caso di chiamarli pesticidi. Dato che gli enti pubblici sono i primi a dirci di chiudere le finestre e non uscire di casa durante l’uso di tali sostanze, possiamo serenamente dire che queste sono pericolose, senza timore di essere complottisti.

Prima che si trovi una soluzione normativa, un modo per salvare capra e cavoli, io annoto che ad oggi c’è solo una via praticabile che appare utile: la coltivazione rispettosa del territorio. Che si può chiamare biologica, biodinamica, naturale, ma che è la sola in grado di dare risposte a breve. Molte aziende che conosciamo sono bio, molte sono in conversione, e per quel che mi riguarda quasi tutte quelle che incrocio nel mio lavoro si stanno dimostrando responsabili, nel senso di sensibili.

La trasmissione, alquanto lunga, si intrattiene sul vino nella prima mezz’ora, e non ha visto sempre interventi brillantissimi (sa il cielo quanto io ami gli eufemismi). Per fare un rapido estratto, Alessandra Mussolini: “La Francia… questi sono contenti che facciamo questi servizi, loro fanno tre volte peggio”. Mario Capanna: “il Prosecco ha fottuto (sic) lo Champagne per quanto riguarda le esportazioni mondiali”. Ci sarebbe quindi da dire qualcosa sulla narrazione del nostro amato vino in tivvù, ma ho anche esaurito le energie.

[Immagine: Wikipedia]

Aiuta anche tu Lidl a scegliere descrittori migliori per i loro vini a catalogo

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Aiuta anche tu Lidl a scegliere descrittori migliori per i loro vini a catalogo

Allora ragazzi miei, facciamo un patto: questo non è un post per maramaldeggiare sui vini al supermercato, sui vini a prezzi improbabili, e tutte quelle altre robe lì. Voglio dire, non è che non ci sia materiale, ma davvero, stavolta vorrei fare altro, vorrei parlare di descrittori del vino. Avete presente quelle due o tre righe che leggiamo sui depliant dell’hard discount? Ecco, qualcosa alla Lidl non sta andando nel verso giusto, secondo me. Dobbiamo aiutarli.

Per esempio: per questa Malvasia frizzante, non si poteva scrivere qualcosa di meglio? “Delicatamente vegetale, mela, floreale, una bolla un po’ aggressiva, sa di poco però“. No, davvero: se io scrivessi una recensione così avrei paura degli avvocati.

Si passa così ad un Traminer “forse un po’ troppo dolce” (evabbè, cose che capitano).

Poi c’è il Verdicchio “vegetale, sapido, amaro, un po’ di solforosa, ma risulta piacevole nel complesso” (sic).

Ci sarebbe anche un Montepulciano bio, pareva interessante, ma ha “naso dai tratti rustici, con sfumature di pelliccia, fuliggine“. E che diamine?

E poi abbiamo anche il vincitore, lo Zibibbo Terre Siciliane con “nota ridotta, salvia, alloro, attacco dolciastro, salvabile“. Salvabile?? C’è qualche sommelier che mi aggiorna sul descrittore “salvabile”?

Ecco, davvero: salviamoli.

[Oppure alcune bozze di quei burloni di assaggiatori del Gambero Rosso, che firmano la selezione alla Lidl, sono andate in stampa così com'erano... al naturale. Vabbè correggete, nel caso. Con affetto infinito]. 

Vini alla Lidl: un altro storytelling è possibile. E anche giustificabile? Vediamo come

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Vini alla Lidl: un altro storytelling è possibile. E anche giustificabile? Vediamo come

La vicenda delle schede descrittive dei vini in vendita alla Lidl, redatte dagli esperti del Gambero Rosso, merita ancora un altro tipo di approfondimento. Per fare questo devo per forza partire da tutti i commenti che ho letto in giro, che rivelano un’altra possibile chiave di lettura.

Quando ieri abbiamo notato queste descrizioni, all’interno del team Intravino, ha prevalso una spiegazione possibile: sono state stampate alcune schede descrittive raw, crude, brutali, redatte da alcuni assaggiatori. Forse dovevano essere editate, forse corrette emendando le descrizioni negative, ma non è successo, e qualcosa è andato storto nella catena lavorativa: questa è anche la mia idea. Ma potrebbe non essere, necessariamente, l’idea corretta.

Ci sono alcuni commentatori che avallano infatti un’altra tesi: Lidl con quelle schede ha voluto essere sincera coi suoi clienti. Per quanto surreale possa sembrare, surreale non significa irreale. Marco per esempio commenta: “Da una parte c’è un’azienda come il Gambero Rosso che ovviamente non può sputtanarsi e classificare come da tre bicchieri vini di fascia bassa, dall’altra la Lidl che offre vino bevibile (per i più, magari non per gli appassionati) ed aiuta il pubblico a scegliere. Si chiama trasparenza”.

Questa cosa per la verità ha un senso: in questo interessante post (prendetevi un po’ di tempo per leggerlo) si segnala difatti la bizzarra strategia comunicativa di Lidl. Tra i commenti di quel post si fa avanti inoltre l’ipotesi che la comunicazione pubblicitaria di Lidl possa risentire di problemi di traduzione dal tedesco. (Potrebbe essere inquadrato anche nel DNA così teutonico di Lidl stessa. Cioè l’idea che il pubblico tedesco apprezzi la verità, seppur brutale). Tutti possibili elementi utili a comporre la tempesta perfetta.

Un altro commento interessante è pubblicato su Dissapore: “in cuor mio spero che al Gambero Rosso si siano resi conto che stavano per perdere sonoramente la faccia e gli hanno imposto di riportare i giudizi così come erano”. Nuovamente, appare surreale, ma se la home di Lidl non verrà corretta dovremo cominciare ad ammettere anche ipotesi di questo tipo. Il Post, oggi, sposa allegramente la tesi “pubblicità onesta di Lidl“.

Resta, alla base di tutto, il dubbio relativo ai termini usati: “bolla un po’ aggressiva, sa di poco, amaro, un po’ di solforosa, nota ridotta, attacco dolciastro” più che errori di traduzione parrebbero davvero note di assaggio stroncanti, col tipico linguaggio degli addetti ai lavori. Quindi un’altra paradossale spiegazione me la fornisce Filippo Ronco: “Se è vero e non è un errore è una nuova frontiera del marketing a cui probabilmente non siamo ancora pronti”.

Se il surreale diventa reale, siamo di fronte a un venditore di vino che ti elenca i difetti del vino che vende, per amore della verità. Si potrebbe suggerire, a quel venditore che ha verificato in via preliminare tali difetti, di NON vendere quel vino. Ma quella forse è una frontiera del marketing a cui stavolta non è pronto lui.

Il Post e l’agricoltura biodinamica. Cronaca di una storia che non abbiamo scritto, salvo ripensamenti

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Il Post e l’agricoltura biodinamica. Cronaca di una storia che non abbiamo scritto, salvo ripensamenti

La settimana scorsa Il Post ha chiuso, a modo suo, il dibattito sui vini biodinamici. Nel pezzo titolato “L’agricoltura biodinamica è una cosa seria?” (e già il titolo da solo era una discreta calamita), il passaggio che ci rileva è, esattamente, questo qui:

«Molti produttori di vino biodinamico sostengono che il sapore dei loro prodotti è cambiato da quando hanno iniziato ad utilizzare i metodi di Steiner, ma per definizione ogni annata di vino – biodinamico o meno – è differente dall’altra. Che sia più o meno buona è, in genere, una questione di gusti personali».

E basta. Fine del dibattito. Beh, è stato facile, no? In fondo questa liquidazione un po’ sommaria del mega dibattitone nel quale ci arrotoliamo da anni ha svariati punti di fascinazione: per esempio ci svela (per la millesima volta) che fuori dal nostro fazzoletto di orto quasi nessuno ama dilungarsi in distinguo estenuanti sul vino biodinamico.

Poi succede un altro fatto. Nel gruppuscolo intravinico discutiamo un po’, appunto, della sommarietà di quella frase, che però tanto mi affascina, essendo io così attratto dall’abisso di chi la pensa in modo diverso. Va be’, al netto di questi personalismi (ma che diamine, questo è un blog, io personalizzo) arriva Jacopo Cossater ad illuminare quelli dentro al quartierino intravinico, che partecipavano alla riunione di redazione/cazzeggio, con un’osservazione che ci mette tutti d’accordo. Scrive infatti Jacopo:

«L’argomento mi sta abbastanza a cuore ma trovo che il suo dibattito fatichi a trovare una qualunque via d’uscita, e il problema ha a che fare da una parte con i suoi detrattori più feroci e dall’altra con i suoi sostenitori più ciechi (magari produttori di vini di dubbia qualità). La questione che sfugge ai primi, credo, è la fortissima componente spirituale che la biodinamica porta con sé, una sorta di “voglio credere” che – in estrema sintesi – ha più a che fare con un percorso di ricerca interiore che con l’agricoltura in sé. Poi possiamo girarci intorno quanto vogliamo ma biodinamica è quantomeno sinonimo di biologico (se non di più, di biologicissimo), basta fare una passeggiata in qualunque vigneto steineriano per avere la sensazione di trovarsi in un luogo “sano”, qualunque cosa questo termine voglia dire. Tutto questo naturalmente non è necessariamente sinonimo di vino buono, è però altrettanto vero che in genere – generalizzando molto – chi dimostra questo tipo di sensibilità in campagna ne riporta buona parte in cantina traducendo il tutto in un certo non-interventismo spesso virtuoso, capace di portare a vini certamente non banali. Che ci siano produttori biodinamici di eccezionale valore non credo sia cosa da sottolineare, vero però è anche l’opposto, con il risultato di trovarsi di fronte a vini davvero dimenticabili che spesso nascondono più o meno accentuate spigolature dietro alla bandiera del “naturale” a tutti i costi (atteggiamento che personalmente sopporto a fatica)».

Avendo tutti quanti letto il pensiero su riportato, ci guardiamo tra di noi e ci facciamo i complimenti: caspita Jac è bellissimo, qui hai praticamente un post già scritto, pubblichiamolo. E cose così. Tuttavia ci chiediamo anche, tutti, se ha senso. Ha senso davvero riparlarne? Quello che ci blocca, ci stucca e ci annoia, è esattamente l’idea di andare a risvegliare “da una parte i detrattori più feroci e dall’altra i sostenitori più ciechi”.

E mentre siamo lì che ci rimiriamo l’ombelico, proprio il giorno dopo Michele Serra dedica la sua amaca a quell’articolo:

Letto il quale balza agli occhi che, hey, Serra ha detto all’incirca quel che diceva Jacopo. Nuovamente ci rallegriamo tra noi e ci facciamo i complimenti, anche perché è bello vedere che qualcuno, là fuori, s’è incaricato di fare il lavoro sporco.

Difatti mezz’ora dopo comincio a leggere sui social i primi feroci distinguo su quanto affermato da Serra, il più lieve dei quali potrebbe essere “Serra è il solito radical chic”.

Quindi, manco a dirlo, Il Post ci ritorna su, in modalità rispondiamo a Serra. Tale risposta si articola (tra l’altro) in questo passaggio:

«Serra mette biologico e biodinamico sullo stesso piano e dice: visto che entrambe le tecniche procurano dei vantaggi in termini di minore impatto ambientale, allora meritano il nostro plauso. Serra ha in parte ragione, perché effettivamente l’agricoltura biodinamica poggia su due pilastri, quello biologico e quello “spirituale”, costruito intorno alle teorie di un filosofo e mistico tedesco morto nel 1925. La parte “biologica” è quella che piace a Serra, ma non possiamo fare finta che la parte esoterica non esista».

Questo passaggio è importante, in quanto segna il distinguo maggiore, più profondo e meno sanabile tra i contendenti: il metodo scientifico da una parte, l’esoterismo dall’altra. Non so voi, ma io non vedo grosse vie di uscita in questo dibattito (e nuovamente devo appellarmi a quanto scritto da Jacopo).

Però la mia impressione è che stavolta coglie il punto Pietre Colorate, quando nella sua pagina Facebook rilancia così il pezzo numero due: il dibattito “sembra riaprirsi, ma a tutto vantaggio, temiamo, della confusione e della superficialità”. Peraltro vi segnalo il commento maggiormente votato al secondo post de Il Post (quanto odio sto bisticcio, ma non potevate chiamarvi a un altro modo?) che dice, sempre tra l’altro:

«Quello che non capisce Michele Serra, così come la maggior parte delle persone, è che un’agricoltura intensiva permette di preservare gli ambienti naturali: se per esempio un paese come la Cina si convertisse all’improvviso ai dettami dell’agricoltura biologica, con le sue rese ridicole ed il suo sfruttamento altamente inefficiente delle risorse, per sfamare il miliardo e passa di cinesi si andrebbe incontro ad una vera e propria apocalisse ecologica di proporzioni inimmaginabili. Per nostra fortuna i cinesi la pensano diversamente da Michele Serra».

Arrivati a questo punto, siamo certi solo dell’incertezza. Per quanto mi riguarda, parlando di vino la mia opinione l’ho espressa molte volte, sempre in termini favorevoli ai bioqualchecosa. Voglio però dirvi anche un altro fatto: è capitato anche a me, qualche volta, di avere bisogno di un medico. In quei casi mi sono affidato con grande serenità a big pharma, mi sono fatto iniettare cose kimike, è andato tutto molto bene ed eccomi qui: ancora vivo.

Ve l’avevo già detto che è un mondo difficile? Ecco.

[Immagine principale: La Raia]


Comunicati stampa che non avremmo mai voluto ricevere. Candonga Fragola Top Quality® – Buona festa della donna

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Comunicati stampa che non avremmo mai voluto ricevere. Candonga Fragola Top Quality® – Buona festa della donna

«Candonga Fragola Top Quality® ti regala “Ricette d’Autore” il libro con le creazioni che vedono protagonista la fragola più famosa d’Italia realizzate da grandi Chef italiani. Lasciati ispirare! – Guarda il video dei campi della Candonga Fragola Top Quality®. È una vera poesia!»

[Va tutto bene, per carità. Ma ecco: l'email è indirizzato proprio a me. Che mi chiamo Fiorenzo. E la profilazione del target? Pazienza, buona festa della donna a me stesso. Extra bonus: la foto è dalla home aziendale, tra un "guardala, toccala, odorala, gustala". È una vera poesia!]

Vergognarsi per il vino al metanolo 30 anni dopo. Basta l’intervista a Ciravegna della Televisione Svizzera Italiana

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Vergognarsi per il vino al metanolo 30 anni dopo. Basta l’intervista a Ciravegna della Televisione Svizzera Italiana

Ritorniamo a parlare di scandalo del metanolo. Certo, sono passati trent’anni, e pare necessario ricordare un trentennale così. Pietro ne ha ripercorso la storia, oggi ci andava solo di segnalarvi un vecchio filmato tratto dalla TV svizzera, con tanto di intervista a Giovanni Ciravegna.

Guardatelo, questo servizio di dieci anni fa. C’era già tutto: la truffa, la beffa, la storia dei sommersi e dei salvati. Manca solo la vergogna: quella, chi vuole, la può provare conto terzi. Prendetevi un po’ di tempo, anche se non vi piacerà.

Il cortocircuito dello storyblabla sul vino

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Il cortocircuito dello storyblabla sul vino

I nostri lettori, generalmente sui social, si lamentano che storytelling ha rotto le scatole: il termine non piace, va sostituito con qualcos’altro. Io, che con le parole un po’ ci lavoro, sarei anche d’accordo. Mi do da fare quindi a trovare sempre parole nuove per il vostro divertimento. Stamattina a colazione ho inventato storyblabla, chissà cosa sarò capace di inventarmi a pranzo.

Comunque sia, oggi Fabrizio mi ha detto che certi storyblabla sul vino “sono interessanti per l’uno per cento della popolazione. Le persone continuano a comprare vino al supermercato guardando il prezzo e non la qualità”. Come dargli torto? Al massimo potremmo dire che l’uno per cento della popolazione non sono quattro gatti, ma è una magra consolazione.

Niente, da ‘ste parti ci arrotoliamo volentieri sullo storyblabla.

Ma vuoi sentirne una bella? Mica è colpa (per dire) dei blogger. È colpa di voi produttori. I produttori di vino si sentono assediati dall’uno per cento degli enofili, e si sono convinti DAVVERO che il mondo stia parlando solo di solfiti nel vino (cito un argomento a casissimo). Non importa quanto sia fondato quel sentimento, loro ci tengono a raccontare (ve l’avevo detto che eliminavo storytelling) quasi unicamente quanto sono zerosolfiti.

Che va bene, eh. Poi alla fine però a turno, a scadenze regolari, questi hanno un tracollo quando lo storyblabla supera il livello di guardia. Come se ne esce? Non se ne esce. Però adesso lo sapete, quindi regolatevi, almeno un po’.

La sostenibilità del vigneto. Ma non nel senso che pensi

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La sostenibilità del vigneto. Ma non nel senso che pensi

Il Corriere della Sera, in un articolo letto oggi, centra l’obiettivo della rilevanza. È rilevante, spesso, tutto ciò che parla di fatti che mi toccano da molto vicino; la rilevanza in questo caso attiene alla mia vita di ogni giorno, ma potrei dire di ogni ora.

Scrive Susanna Tamaro:

«Per un privato, possedere un uliveto, spesso ereditato, è ormai una vera maledizione. La raccolta delle olive è un’operazione lunga e faticosa e, fino a qualche anno fa, era possibile unicamente grazie alle grandi famiglie e alle comunità del posto che si rendevano disponibili a dare una mano. Ma ora non è più fattibile».

L’articolo riguarda quella che io definisco la sostenibilità dell’attività di impresa. Che, allo stato attuale, si sta riducendo a zero. Continua così:

«Per legge, infatti, sui propri terreni possono lavorare soltanto i parenti strettissimi, padri e figli. Qualsiasi altra persona, lontano cugino, amico, vicino di casa, deve essere regolarmente retribuito. Così, chi chiamava gli amici a raccogliere le olive, regalando alla fine parte del raccolto per farsi l’olio non lo fa più perché rischia una multa in grado di abbattere un bilancio familiare. Produrre l’olio per trarne un guadagno dalla vendita è possibile forse ormai soltanto a chi possiede enormi estensioni di olivi e macchine in grado di effettuare la raccolta. L’uva e le olive condividono lo stesso destino. Per ambedue, i controlli sui lavoranti sono serrati e implacabili. In tempo di vendemmia, il cielo è spesso solcato da elicotteri che fotografano i fedifraghi che si fanno aiutare dagli amici, dai cugini di secondo grado o dal fidanzato della figlia. Non solo, a dare man forte arrivano anche le truppe via terra, bloccando la vendemmia per un giorno intero, se non due, alla ricerca del sicuro abuso compiuto».

Questo articolo, terribile e bellissimo, parla nell’esempio specifico di uliveti e vigne, ma come avrete letto riguarda, ormai, ogni genere di attività di impresa che abbia dimensioni piccole, o familiari: fare questo lavoro sta diventando insostenibile. E per una volta non uso sostenibilità nel senso ecologico del termine (che pure mi sta tanto a cuore).

Pochi giorni fa ho parlato con un vignaiolo che mi ha descritto esattamente lo stesso quadro (ed è la millesima volta che sento questi discorsi). Spiace dire che non vedo nessuna luce alla fine del tunnel. Chi ci ridà la sostenibilità dell’attività di impresa? Non sarà certo:

«un apparato statale che tratta le persone oneste e per bene come possibili truffatori e resta per lo più inerme verso i veri delinquenti. Uno Stato che, nonostante i grandi proclami, continua a considerare chiunque voglia intraprendere un’attività un capitalista senza scrupoli, uno schiavista in pectore a cui vanno tagliate le gambe prima ancora che cominci a camminare».

[Immagine - Crediti]

Ode al vino da vitigno autoctono nonché scarsamente reperibile (Molinelli e simixaa, mai sentiti?)

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Ode al vino da vitigno autoctono nonché scarsamente reperibile (Molinelli e simixaa, mai sentiti?)

Cari amici che snobbate lo chardonnay barrique, perché tra un po’ lo produce pure l’azienda vinicola Acme, avrei un paio di cose per voi. Gli ultimi giri di assaggi mi hanno portato (o ri-portato) a contatto con alcuni vini notevolmente stracult e micro, nel senso della produzione omeopatica. Vini perfetti da esibire col resto del mondo non-enofilo ostentando orgoglio: “va’ che ti ho portato per cena stasera. Tu che hai? Blangè? Ah beeh”. Ecco qua di che si tratta.

Insomma 2015, Molinelli (Ziano Piacentino, PC)
Luigi Molinelli, Ginetto per gli amici, lo trovate spesso dietro il tavolo degli assaggi nella sua cantina a Ziano Piacentino. Se avete particolare fortuna, in compagnia di una coppa locale (il salume, non il premio). Vulcanico e ieratico, vi spiegherà cosa è bene e cosa è male nell’enomondo. A me è simpatico da sempre. La caratteristica stracult della sua cantina sta in un vitigno alquanto misterioso, talmente misterioso che l’Università di Piacenza col Professor Fregoni, non riuscendo a identificarlo in nessun altro modo, l’ha chiamato Molinelli, come il padrone del vigneto. L’uva Molinelli, bianca, genera appunto un bianco che io ho ormai assaggiato in molteplici versioni e in diversissime annate. L’Insomma è l’ultimo nato, ottenuto da uva Molinelli al 75%, e 25% chardonnay, ed essendo Ginetto un geniaccio, con il nome creativo identifica un Vino Bianco senza nemmeno l’IGT, e tanti saluti. Alla prova di assaggio il 2015 è ispido, provocante, ha note aromatiche che evocano riesling e sauvignon senza assomigliare a nessuno dei due. Avendo uno storico personale posso dirvi che i vini da queste uve hanno ottime capacità di affinamento: ho aperto bottiglie ormai decennali di molinelli bianco, strepitose. Il tappo a vite, adottato per la tipologia, per i fan della chiusura non ha bisogno di presentazioni. Per chi non lo ama, vi invito davvero a sospendere il giudizio critico, visto che anche nei tempi lunghissimi preserva alla perfezione la verve aromatica di questo vino, dove (come sappiamo) il sughero a volte ci riserva amare sorprese. Prezzo in cantina: sui 6 euro.

Be the change you want to see 2015, Molinelli
Dallo stesso vitigno in purezza nasce questo passito. Non è il caso che io ribadisca il gusto tutto speciale che ha Luigi nel trovare nomi creativi ai suoi vini. La denominazione è comunque “Emilia Bianco Passito IGT”. Questo vino dolce ha convinto me e la platea di amici che l’hanno assaggiato, recentemente: forse colpisce da subito quella nota muffata da sauternes, dove la frutta secca si mescola a riconoscimenti vegetali da sauvignon passito. Poi lunghezza, dolcezza insistente, caratterino (ancora una volta) ispido: equilibrio quasi perfetto, per me. In cantina la mezza costa 17 euro.

Azienda Vinicola Molinelli (La Celata)
Viale dei Mille, 21 – 29010 Ziano Piacentino (Piacenza)
Telefono 0523 863230

Giamin 2014, U Cantin (San Colombano Certenoli, GE)
Questo vino bianco, che è anche una gloria locale (visto che siamo in provincia di Genova) ha bisogno per forza di un po’ di spiega sul vitigno usato: lo simixaa (pronuncia: scimiscià) è un’uva bianca quasi sparita e recuperata con vicende anche molto alterne nel corso degli ultimi anni. A produrla oggi sono pochissimi, e appunto è una specie di araba fenice, qui in giro. Per come la vedo, un vino difficilmente reperibile nella stessa Liguria nella quale è prodotto, finisce per essere un Gronchi rosa dell’enologia. Al tavolo della micro rassegna local dove ho assaggiato il vino in questione c’era una specie di dazebao alto un metro e mezzo contenente quasi tutto quel bisognava sapere su quest’uva. Riassumo: lo simixaa era coltivato da tempi remoti nell’entroterra di Chiavari, anche se non ci sono date certe sulla risalenza dell’impianto, né sulla provenienza. Si trova un’unica annotazione relativa all’uva in un documento dei primi dell’ottocento, dove si indicano le qualità migliorative del vitigno, da usare assieme ad altre varietà locali. L’uva necessita di una vendemmia possibilmente tardiva, mantenendo tuttavia un’elevata acidità. Queste caratteristiche lo rendono, anche, ideale per la produzione della versione passita. Nella versione secca ho apprezzato il Giamin vendemmia ’14: è stato un po’ sulle fecce nobili quindi s’è arricchito di una vena matura, quasi ossidativa ma per niente stancante; in bocca sorprende con una forza inaspettata, che gli dà lunghezza gratificante. In cantina costa 14 euro. Nella vendemmia 2014 c’è stata una micro-vinificazione di soli 150 litri, ma per il 2015 i litri prodotti “salgono” a 500.

Maccaia 2011, U Cantin
È la versione passita dello simixaa, e in questa vinificazione mostra probabilmente l’attitudine migliore per quest’uva: si annuncia glorioso nel colore ambra scuro, al naso vinsanteggia, ha cioè una nota sottilmente ossidativa da frutta secca, molto invitante. In bocca la dolcezza sontuosa non cede nemmeno un attimo in finezza, alternando forza e gentilezza. 25 euro in azienda, per 600 mezze bottiglie prodotte.

Da U Cantin
Via S. Gaetano, 90 – 16040 San Colombano Certenoli (Genova)
Telefono 0185 358578

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Zitti zitti quelli di Lidl hanno modificato le schede dei loro vini. Ma non fatelo sapere in giro

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Zitti zitti quelli di Lidl hanno modificato le schede dei loro vini. Ma non fatelo sapere in giro

Ve la ricordate l’allegra storiella delle schede descrittive dei vini della Lidl? Ma sì, quelle schede che tanto ci hanno divertito, piene di testi iperrealisti: la Malvasia con la “bolla un po’ aggressiva, sa di poco però”, oppure il Verdicchio “vegetale, sapido, amaro, un po’ di solforosa”, e lo Zibibbo con “nota ridotta, salvia, alloro, attacco dolciastro, salvabile” (sic).

Le schede in questione, redatte da assaggiatori del Gambero Rosso brutalmente sinceri, erano andate in stampa sul volantino e online sulla home di Lidl con quei testi alquanto comici. Al punto che ci siamo chiesti: qualcuno forse doveva editare quelle descrizioni, emendando le note un po’ (come dire) troppo sincere? Alla fine abbiamo registrato anche un bel po’ di commentatori che hanno sposato una tesi (per me) anche più bizzarra: si tratta di Lidl che vuole talmente bene ai suoi clienti da stampare delle schede descrittive palesemente critiche: insomma, il loro cliente deve sapere.

Sia come sia, è passato un po’ di tempo e zitti zitti sulla home della Cantina di Lidl quei vini sono spariti tutti. Rimane solo la Malvasia piacentina, ma, colpo di scena: la vecchia scheda è cambiata. Ecco il prima:

Ed ecco il dopo:

Stesso vino, stessa annata, stesso prezzo ma stavolta solo “delicatamente vegetale, mela e floreale”. Boh, forse è un lotto diverso, vai a sapere. Comunque un bel miglioramento, complimenti al produttore.

Comunicati stampa che non volevamo ricevere: l’era ansiogena è iniziata

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Comunicati stampa che non volevamo ricevere: l’era ansiogena è iniziata

Se da queste parti ogni tanto avete letto post che iniziavano con “comunicati stampa che non avremmo voluto ricevere”, adesso prendete nota: quei post non sono serviti a niente. Ogni volta che abbiamo preso in giro le agenzie di stampa, intente a comunicare il vino spammando il mondo con CS esilaranti, quelle ci hanno risposto, quando è andata bene, stizzite: “fammi lavorare, ragazzino”. Poi se ne sono sbattute allegramente. Poi hanno continuato a bombardare le nostre caselle di posta con le più formidabili e demenziali supercazzole che si siano mai lette.

Adesso siamo passati alla seconda fase: quella ansiogena. Siamo alle molestie, allo stalking. Non si limitano all’invio del comunicato, sollecitano la lettura, e annunciano: “Sarà nostra premura richiamare nei prossimi giorni per verificare l’interesse a inserire la notizia nella Vostra programmazione editoriale”. RICHIAMARE? (Ma anche: QUALE programmazione editoriale? E chi ne ha avuta mai una).

Quei post non sono serviti a niente perché i blog non contano una serena ceppa di niente. E se qualcuno li leggesse, eviterebbe di richiedere a Intravino una scelleratezza come “inserire la notizia nella Vostra programmazione editoriale”. MA QUANDO MAI abbiamo inserito da qualche parte gli sbrodolamenti autoreferenziali compilati in un dannato CS? Ma soprattutto: se nemmeno leggi Intravino come è evidente da quella richiesta delirante, perché ci dai lo stress? Perché ci tieni ad essere su un blog che manco leggi per sbaglio?

Lasciateci morire nella nostra ininfluente inedia. E soprattutto, se quel richiamare ha a che fare con le linee telefoniche, NON telefonateci. Stiamo dormendo.

Post scriptum, già che ci siamo: la prossima volta che un fenomeno parastatale di sedicente wine blogger vi chiederà l’elemosina in cambio di un post sul suo blog letto da quattro gatti malati, mandategli il link a questo post copiando e incollando quando segue: “i blog non contano una serena ceppa di niente“.

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Assaggiare Rocco Rosso: fatto. Sì, Rocco Siffredi, nel senso del vino

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Assaggiare Rocco Rosso: fatto. Sì, Rocco Siffredi, nel senso del vino

Il primo impegno che dovremmo sbrigare, parlando del vino di Rocco Siffredi, è elencare qui e subito le possibili battute, giochi di parole, calembour, che riguardano questa produzione, che reca un nome alquanto impegnativo. Così ci portiamo avanti col lavoro, ci leviamo il pensiero, poi parliamo del vino. Quindi ecco, partendo dai descrittori softcore e via via arrivando all’hardcore. La lista, temo, non è definitiva.

- Non solo magnum (oppure: solo magnum)
- Lungo in bocca
- Un vino verticale
- Entra e si allarga sulla lingua
- Lungo, largo e molto scuro
- Impossibile sputare
- Un vino del cazzo

Archiviata la pratica, qualcuno potrebbe chiedersi: e quel vino, com’è? Vinitaly serve, tra l’altro, ad assaggiare quello che, per caso o scelta, è fuori dai tradizionali giri di assaggio – perlomeno, a me capita spesso di impiegare la fiera veronese a quel modo.

Poi succede anche l’imprevisto: un certo vino, che potresti immaginare unicamente come l’ennesima bizzarria del solito ricco-e-famoso, te lo ritrovi nel bicchiere e pensi: ah, però. Rocco, Rosso Colline Pescaresi IGT 2012, ha un look brillante, purpureo-violetto, e al naso è un modernista esibizionista: è profondo, un infuso di frutti neri e liquirizia, e alla fine ha un richiamo accennato e minerario tipo gomma bruciata. Interpretazione moderna, appunto, e assai ammiccante di uva montepulciano. Niente barrique ma botti da 500 l. Si vende solo via internet, sui 16 euro. A voler dare il solito punteggio, sotto gli 87/100 si commette un’ingiustizia, per me.

A chi piacerà: a chiunque ami il genere fruit bomb, tenendo presente che i toni caricaturali qui sono accuratamente evitati. Insomma il lavoro dell’enologo si sente, ma io gli farei pure i complimenti, ecco.
A chi non piacerà: a qualunque assaggiatore che detesta l’interventismo enologico e ricerca cose rapide/sapide/scattanti. Questo gigioneggia un bel po’. Insomma il lavoro dell’enologo si sente, quindi ci siamo capiti.

Alla fine dell’assaggio io resto piacevolmente sorpreso. Rocco Siffredi (forse sarà noto) NON è un produttore di vino, ma ha prestato il suo nome a chi lo fa davvero, Castorani, che non è esattamente micro (30 ettari di proprietà più altri 60 in affitto). Sostanzialmente ha voluto un vino suo, così ha deciso di chiederne la creazione a Jarno Trulli (amico, e abruzzese come lui, in quota Castorani).

Rocco Rosso mi ha incuriosito quanto basta, quindi durante la visita allo stand chiedo di provare altre cose. L’azienda abruzzese sfoggia orgogliosa una bottaia in cemento arcaica, e alterna contenitori retrò e legni piccoli con disinvoltura. Dopo il vino di Rocco nei mie appunti c’è questo Cadetto, Montepulciano d’Abruzzo 2013, un vino piacevole proprio per la leggiadria e la bevibilità: la frutta rossa è accennata e in bocca ha una saldezza rustica molto ben azzeccata. E in enoteca, pensa un po’, costa sui 6 euro. Quasi quasi, si sono fatti perdonare.

Il turismo in Liguria: territorio, cultura, paesaggi, e i suoi vini. Ah no, aspetta un attimo…

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La Liguria è il paradiso in terra, ed è la meta turistica migliore della galassia. La premessa non è dovuta in alcun modo al fatto che io sia genovese, lo penso davvero, quindi conflitto di interessi vade retro. Ecco perché sono particolarmente lieto di vedere nelle timeline su Facebook questo allegro richiamo all’iniziativa “Week end in Liguria 3 x 2 – Dormi 3 notti e ne paghi 2”. L’immagine è suggestiva, insomma tutto bello.

Tuttavia.

L’occhio dell’enomaniaco cade su un particolare. Questa è l’immagine che si dispiega sullo smartfono:

Ecco, quell’etichetta del vino sul tavolo… aspetta un attimo:

Mi ricorda un altro vino. Che, ahem, sarebbe notoriamente di un’altra regione. Friuli Venezia Giulia, per l’esattezza:

Caspita, pare proprio Livio Felluga. NUUU non dirmelo, hanno usato un’immagine di un vino friulano per fare lo spottone al turismo in Liguria. Ragazzi, siccome non sono in conflitto di interessi, vi rimentalizzo: anche da queste parti abbiamo bianchi meravigliosi. Dovevate proprio usare una stockphoto qualsiasi con un bianco friulano, per illustrare il turismo in Liguria?

Il sito Turismoinliguria.it peraltro è proprio emanazione dell’Agenzia regionale Promozione Turistica “In Liguria”. Insomma una cosa pubblica

Elaborazione della crisi nei social media: Lidl, Regione Liguria, Birra del Borgo

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Negli ultimi tempi mi sono passate davanti tre situazioni che potremmo definire, tra l’altro, “crisi da social media”. Tre vicende, cioè, nelle quali l’esposizione di comunicazioni aziendali relative a tre attori diversi ha generato polemiche, e diverse reazioni negli attori stessi. Tradotto: come si elabora la crisi quando nei socialcosi finisci in mezzo alla tempesta e alle critiche? Fondamentalmente mi pare esistano due tipi di stili finora osservabili: metti la testa sotto la sabbia, fai finta di niente e aspetti che tutto passi, oppure cerchi di affrontare in qualche modo, direttamente, la questione.

1. La Lidl e le schede descrittive del Gambero Rosso.
Se ne parlava da un po’, io mi sono limitato a riprendere la questione in un post: Lidl ha prodotto schede descrittive tra il demenziale e il comico per alcuni vini che presentava sul suo volantino (“sa di poco, salvabile” etc). Schede peraltro redatte dal Gambero Rosso. Per me si trattava, pacificamente, di un errore: avevano stampato appunti non editati, shit happens, mettetela come volete. Poi s’è fatta avanti un’interpretazione per me anche più paradossale: Lidl voleva essere brutalmente sincera con i suoi clienti, oppure è una forma di situazionismo virale, vattelapesca. Se leggete Wired, quelli ancora credono a questa versione (“penso si tratti di uno dei primi casi di Pubblicità Onesta”). Passa un mese, e quelle schede oneste misteriosamente spariscono dal volantino, e le poche sopravvissute vengono corrette togliendo i descrittori demenziali. Morale: stai fermo, zitto, fai finta di niente e quando è calata l’attenzione metti tutto a posto.

2. Vieni in Liguria. A bere vino friulano.
Questa è un po’ più recente: l’Agenzia regionale Promozione Turistica “In Liguria” sponsorizza su Facebook un’iniziativa dedicata (appunto) alla promozione turistica, ma l’immagine presenta una coppia che beve, abbastanza chiaramente, un vino di Livio Felluga. Anche qui: shit happens, e del resto, capirai, che ne possono sapere quegli addetti ai lavori? Quell’etichetta era riconoscibile essenzialmente per chi ha l’occhio allenato. Nuovamente, si fa finta di niente, e si sostituisce l’immagine. Va tutto bene.

Screen Liguria

3. Birra del Borgo passa di mano, e viene comprata da InBev.
Questa infine è dell’altroieri: ho seguito anche io con interesse, e notevole sorpresa, il passaggio di stato di Birra del Borgo, un fondamentale birrificio artigiano che diviene proprietà di uno sterminato gruppo industriale della birra. La vicenda, comprensibilmente, non poteva che generare polemiche anche virulente nel vasto numero di birrofili affezionati all’idea di artigianalità della birra. Io, devo dire, ero tra quelli (solo cerco di non essere virulento, ecco). Per questo ho apprezzato infinitamente, e ho trovato utile a capire meglio, l’iniziativa di Birra del Borgo: affidarsi ad un live su Facebook nel quale narrano l’accaduto rispondendo, anche, a domande in diretta. Ora, si può mantenere pure un giudizio critico sulla vicenda, tuttavia quel modo di affrontare la crisi m’è sembrato notevole. Quindi insomma, bravi.

In questa parte del post normalmente si infilano considerazioni di merito. E magari si suggerisce, a chi legge, di scegliere quale stile comunicativo sia preferibile. Tuttavia io non sono certissimo nello stilare una classifica tra buoni e cattivi: siccome, purtroppo, lo stile “ficca la testa sotto la sabbia” pare efficace. Semmai posso annotare che tanto più grosso è il player, tanto più quello stile sembra preferibile. Quindi sì, ecco una possibile sempiterna considerazione: piccolo è bello, anche nella comunicazione.

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Mare&Mosto 2016 tra assaggi insoliti e dibattiti: serve davvero una Doc Liguria?

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Un segno di salute per una rassegna del nostro settore è la capacità di attrarre nuovi e inediti produttori. È il caso di Mare&Mosto, che centra bene l’obbiettivo anche per l’edizione 2016. Questa fiera local, micro e a misura d’uomo (si tiene a Sestri Levante, in una cornice che non voglio definire, tanto già sai) è il classico appuntamento al quale si partecipa con un misto di felicità e di affezione. Oltre ai vigneron già noti e gloriosi, è facile trovare produzioni inesplorate, che per un fan o un addetto ai lavori rappresenta un ulteriore valore aggiunto.

Mare&Mosto inoltre apre nella mattina di domenica con un curioso dibattito, a metà tra il work in progress e l’idea abbozzata: è il caso, o no, di introdurre una denominazione “Liguria” a tutte le altre Doc già presenti? Come segnalerà il presidente dell’AIS Antonello Maietta nel suo intervento (a tratti esilarante, un grande blogger in pectore) questa regione, assieme alla Lombardia, è l’unica in Italia a non avere una Doc o una Igt di ricaduta, che rechi appunto il nome di Liguria. L’utilità di una tale nuova denominazione risiede, secondo chi promuove l’idea, nella maggiore facilità comunicativa che consegue all’uso di un (ad esempio) “Liguria Doc” in aggiunta a denominazioni un po’ oscure e non riconducibili facilmente alla regione: si fa l’esempio di Pornassio, o Levanto.

Personalmente sono abbastanza contrario ad una simile eventualità, che pare l’opposto dell’enfatizzazione del particolare, del genius loci, insomma dell’elemento territoriale identitario (tutte cose che dovrebbero avere la precedenza). Il dibattito non risolverà il busillis, e probabilmente non era intenzione di chi l’ha organizzato mettere un punto definitivo. Semmai l’idea era interrogarsi su quell’opportunità. Tuttavia il dibattito m’ha riposizionato: forse una Igt Liguria avrebbe senso in funzione appunto di ricaduta, là dove altrimenti non esiste modo di associare il territorio a quel vino. Come d’uso in questi casi, mi rimetto anche a chi legge.

Ma si parlava di assaggi. I partecipanti erano numerosi e assieme alle molte glorie locali c’era una rappresentanza ospite forestiera (quest’anno è toccato alla zona di Soave). Sui local, come dicevo, vi segnalo quel che nelle mie note s’è accompagnato con vari punti esclamativi, asterischi ed altri geroglifici che nel mio linguaggio significano “occhio a questi qui”. In aggiunta ai punteggi, certo.

Il primo della lista è Casa del Diavolo: l’azienda è giovane come il suo frontman, che dalla Brianza pochi anni fa si trasferisce a Castiglione Chiavarese e riavvia la produzione di cose locali: bianchetta, ciliegiolo, e dolcetto, un’uva che nella zona tigullina trova numerose interpretazioni. Il dolcetto 2015 in particolare è molto intenso, profondo, tannico, con un notevole finale di frutta al netto delle rigidità tipiche del vitigno. Bene anche la bianchetta, con frutta bianca matura (mela renetta) e un’inattesa pienezza caratteriale in bocca. Prezzi sui 12 euro, indicativamente, in enoteca. Per chi volesse conoscere meglio questa (davvero micro) realtà produttiva, c’è questo PDF da un articolo dell’anno scorso tratto dal Secolo XIX.

Albana La Torre è un’azienda delle Cinque Terre fuori dal mio radar (con annesso senso di colpa). È seguita da Walter De Battè, nume tutelare di quella parte di Liguria. Volendo essere originale consiglio, più del loro già significativo bianco, il Vino Rosso (nessuna denominazione né annata in etichetta, ma trattasi di 2014) che si dimostra pimpantissimo, giovanile, con un curioso naso di frutta rossa macerata. È composto da granache e cabernet sauvignon marselan, incrocio tra grenache e cabernet sauvignon, ed ha un prezzo molto cinqueterre, oltre i 25 euro in enoteca.

A proposito di rossi, proseguo controcorrente aggiungendo alla mia wishlist il Cericò (senza annata) di Primaterra, azienda in quota De Battè: granaccia 85%, syrah 15%, che parte solo apparentemente sottile poi sprigiona un frutto quasi nascosto. Ha una beva ampia, seducente, e la durezza rincorre il frutto, tenendolo a bada.

E dopo aver detto di vini rossi in area abbastanza bianchista (mi piacciono le devianze) potrei parlare di bianchi da produttori di rossese: per esempio, e qui siamo sui nomi più noti, ho amato molto il Tabaka 2015 di Ka Manciné, e lo consiglio se non altro perché ormai non c’è gloria a parlare dei suoi affermati Rossese di Dolceacqua. Un bianco ottenuto da massarda, 70%, e vermentino, 30%, con un giorno di sosta sulle bucce. Si presenta teso, già godibile, permane a lungo con una frutta bianca molto matura, insomma memorabile. Solo 1500 bottiglie, bisognerà essere veloci. In enoteca sui 15 euro.

A proposito di soliti noti: Maria Donata Bianchi, che sarebbe già una specie di primo della classe con i suoi Vermentino Riviera di Ponente, stavolta strappa l’applauso pure col Pigato 2015: erbe aromatiche, timo, mare e sole, praticamente una camminata sull’Alta Via dei monti liguri in una bella giornata. Tanta soddisfazione per circa 15 euro in enoteca.

E volendo chiudere evocando un rifermentato-col-fondo (non posso più farne a meno, abbiate pazienza) tenete a mente Podere Grecale che, tra le altre cose buone, ha un Frizzantin (si chiama proprio così) composto da vermentino 80%, granaccia (in bianco) 20%: mela ancora verde, puntuto in bocca, quasi asciugante. Prezzo sui 12 euro e ne berresti a damigiane ma, attenzione: solo 500 bottiglie prodotte. I latifondi in Liguria stanno messi così.

In chiusura voglio segnalare almeno uno tra gli ospiti foresti dall’area del Soave: Sandro De Bruno ha presentato tra l’altro un esemplare metodo classico da quelle uve, nel quale la spumantizzazione si avvale del notevole corredo aromatico mineral-vulcanico del Soave. E inoltre aveva in assaggio una versione matura, 2008, del bianco fermo: un assaggio raro, potente, per un vino che (dice il patron) non è più in vendita ormai, al limite si regala ai clienti che passano in azienda a fare acquisti. Direi che vale la pena annotarsi quell’indirizzo.

In cinque anni gli alcolici hanno perso 1,2 milioni di clienti. Vediamo se c’è anche la buona notizia

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“Bevande alcoliche: ecco i 10 trend di consumo in Italia” è quasi tutto quel che possiamo chiedere ad un titolo. Contiene quel che serve per attirare l’attenzione, perlomeno con me. Sono ancora affezionato ai titoli in stile “dieci cose che”, pare che non vadano più, ma quandomai.

Quindi di che si parla stavolta? Di consumi di alcolici. Le tendenze elencate in quel titolo su dieci punti da Mark Up descrivono uno scenario in parte noto agli addetti: i consumi sono in calo costante a causa della crisi e del cambiamento negli stili di vita. Detta così parrebbe una questione riassumibile con “circolare, non c’è niente da vedere”, ma l’indagine sui consumi alcolici negli ultimi cinque anni di Nielsen, commissionata da Federvini, contiene anche aspetti che meritano un approfondimento. Vediamo allora il why e il because.

Grafico 1

I punti uno, due, tre e quattro sono sostanzialmente tutti relativi al calo dei consumi. E raccontano appunto quel che già sappiamo: s’è ridotto il numero di bevitori (“nel quinquennio 2011-2015 si è assistito a una perdita di 1,8 milioni di consumatori, -5%, per un totale di 32,2 milioni”). Si beve con meno frequenza (durante la settimana si è passati “da 4 volte a 3,6”), si beve meno a pranzo ed è però aumentato il livello a cena e nel rito dell’aperitivo. Infine si rileva che si beve di più fuori che a casa. E va bene.

È al punto cinque che le cose si fanno interessanti: cosa si beve di più. Il vino, essendo in cima alla classifica, segna anche un forte calo numerico nel numero di bevitori: -5%. Trovo alquanto sorprendenti i dati che riguardano pure il calo nel numero dei bevitori di superalcolici: “liquori (-30%), distillati (-17%) e cocktail alcolici (-31%)”. A questo potrebbe essere collegato il fatto che tengono “invece i consumi di champagne, spumante, prosecco ed aperitivi alcolici”, in quanto la scelta di un vino poco alcolico come il prosecco ad uso aperitivo, confrontato col ben più corpulento Negroni, finisce per apparire una scelta salutista.

Si tratta di percezioni, anche, come annuncia il punto sei: l’aumentata consapevolezza di ordine culturale determina un differente, e più cauto, approccio del consumatore verso la bevanda alcolica: “Nel 2015 l’83% dei consumatori pensa infatti che bere tanto e perdere il controllo non sia più di moda, contro il 77% del 2013 e il 73% del 2011”. Ineccepibile, verrebbe da dire.

Nei punti sette e otto si approfondisce la natura comunicativa che sta alla base dei rinnovati comportamenti. “Funziona meglio una corretta cultura del bere che 100 divieti” in effetti suona benissimo per chi, come me, non ha alcuna simpatia per qualsiasi proibizionismo. In termini generali, si apprezzano (e si assecondano) gli elementi comunicativi che inducono alla consapevolezza.

Grafico 2

Al punto nove si parla di internet. Qui nuovamente rilevo questioni di un certo interesse: “il ruolo di internet nel processo di acquisto ad oggi è più spostato sulla ricerca di informazioni e prezzi che sull’acquisto”. Si tratta di un’affermazione che ci porta a riflettere (per quanto mi riguarda potrei aggiungere “nuovamente”) su internet come efficace canale di vendita. Al momento l’internet del vino che prevale è quello dello scambio di dati, più che di bottiglie.

Il punto dieci chiude su aspetti che attengono all’export: in un panorama di esportazioni non splendide il vino riesce a dare qualche gioia. Interessante questo passaggio: “nel 2015 l’Italia ha esportato vini e mosti per un valore pari a 5,5 miliardi di euro in aumento del 4,8% sull’anno precedente. Calano invece del 2,3% i volumi attestandosi a 21 milioni di hl”. Tecnicamente significa: vendiamo meno ma con un prezzo (valore) maggiore. Tra tutti i dati che ci parlano di riduzioni, quest’ultimo dettaglio consente, forse, una prospettiva ottimistica.

[Immagini: Dhaka Tribune, Mark Up]

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