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Channel: Fiorenzo Sartore – Intravino
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Attendo un vostro gentile riscontro. Le supercazzole assortite che troviamo nella posta in arrivo non devono andare perdute

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La lettura della posta che arriva all’indirizzo dillo at intravino è diventato un rito del mattino, assieme al caffè, per noi della cricca intravinica. Durante la riunione della mente collettiva liquida e on cloud ci chiediamo: e oggi cosa abbiamo? Intra ha svariati anni di vita ormai e l’inbox dell’email è un luogo strano, a tratti incomprensibile. Arrivano le missive più surreali che abbia mai visto in decenni di internez. Oggi mi andava di condividere qualcosina. Testi originali, refusi compresi.

1. Te lo dico forte e chiaro. In capslock cioè.
BUONGIORNO DA FATTORIA […]. ABBIAMO APPRESO LE MODIFICHE AVVENUTE ALL’INTERNO DELLA VOSTRA GUIDA.
GRADIREMMO RICEVERE COME OGNI ANNO L’INVITO A PRESENTARE I NOSTRI CAMPIONI DI VINO E LE RELATIVE SCHEDE TECNICHE PER PRESENZIARE NELLA VOSTRA PRESTIGIOSA GUIDA CORDIALI SALUTI
Ma quale guida? Qui non facciamo nessuna guida. Veramente una volta io ho scritto che prima o poi pubblicheremo la “Guida sfigata ai vini d’Italia di Intravino” ma scherzavo. (Svelamento ex post: lo scrivente si riferiva alla guida de L’Espresso 2017. Peggio sto).
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2. Campioni d’Italia.
Salve e buone cose a tutti Voi
sono […], ( az. agr. …) e gradirei sapere quali luoghi , in Capania, avete idividuato per la consegna dei campioni di vini da recensire sulla prossima Guida.  Certo di un Vostro cenno cordialmente saluto ed auguro buon lavoro.
Buone cose anche a lei. Come sopra, ma quale guida? (Svelamento ex post, non s’è mai saputo quale).
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3. Qualcosa di interessante, capisci a me.
Buonasera, sono […], proprietario di […] e volevo sapere se si poteva fare qualcosa di interessante con il vostro wineblog. Grazie e buonasera.
Mah, “qualcosa di interessante”, non saprei, noi qui generalmente ci giriamo i pollici, non succede mai niente di interessante. (Purtroppo a firma maschile. Se era firma femminile si potevano fare sogni erotici su quel tono aumma-aumma, ma niente, mai una gioia).
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4. Questo ce l’ha proprio con me.
Gentile Fiorenzo Sartore,
leggendo il suo bellissimo blog, di cui ricevo le news, mi sembra di capire che potrebbe apprezzare la produzione […] e Masseria […]. Abbiamo messo in serbo per lei alcune bottiglie che potrà personalmente ritirare al nostro stand Vinitaly […] Sarebbe per noi molto bello se lei volesse assaggiare le nuove vendemmie e dedicare loro qualche riga. Le allego dunque le nostre cartelle stampa (oh no, ndr) con le novità che presenteremo. Riguardano, per […] la forma della bottiglia e la realizzazione di un bel video che ne mette in risalto la superficie diamantata. Per Masseria […] il labeling di […], il nuovo […] Single Vineyard affinato in barrique. Mi contatti pure al cellulare. Saremo molto felici di accoglierla con i nostri omaggi.
Grazie, siete molto gentili. Però, una cosa: Intra NON è mio. Cioè, io qui ho anche le chiavi di casa ma non è il mio blog. Anche se è “bellissimo”. Perché vedete questo è un blog collettivo che… va be’, lascia stare, grazie ancora.
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5. Lo storytelling del pandoro (qualunque cosa significhi).
Buongiorno,
il Pandoro è una storia da raccontare, e noi ve la vorremo narrare…
In allegato lo storytelling di questo gustoso e unico dolce, certi che l’esposizione sia di Vostro interesse e troviate spazio per la pubblicazione.
Il pandoro mi piace da impazzire (e purtroppo si vede), “storytelling” invece mi rimane indigesto, quindi grazie, ma no.
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6. Te lo dico forte e chiaro (due).
HO ORDINATO DUE CONFEZIONI DI VINO ( OFFERTA 39.90 EURO 12 VINI DOC E DOCG PIU’ 6 SPECIALITA’ E UNA COFANETTO DA SOMMELIER CON UNA BOTTIGLIA DI BARBERA D’ASTI ) SOLO CHE LA BOTTIGLIA IN QUESTIONE IL VINO E’ ACIDISSIMO E SA DI TAPPO, OLTRE LA FIGURA CHE HO FATTO CON AMICI HO DOVUTO BUTTARE IL TUTTO, APRIRO’ A BREVE ANCHE L’ALTRA SPERANDO CHE SIA BUONO, —CHI MI RIMBORSA O MI MANDA UN ALTRA BOTTIGLIA ????? GRADIRTEI DA […] UNA RISPOSTA GRAZIE.
Ok, qui la questione è semplice: non siamo noi i lestofanti venditori. E nemmeno siamo lo sportello di Altroconsumo. Quindi che facciamo? Ma soprattutto: com’erano poi le altre bottiglie?
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7. Te lo dico forte e chiaro (tre). Anzi te lo chiedo.
BUONA SERA
SAPRESTE DIRMI ORIENTATIVAMENTE IL COSTO PER LE PUBBLICAZIONI DEGLI ARTICOLI SUL VOSTRO SITO?
CORDIALI SALUTI; DOTT. […]
Mah, dipende, quelli scritti tutti maiuscolo stanno sui diecimila euro più Iva. A riga.
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8. Luca Maroni, uno di noi.
Buongiorno,
sono […] e mi occupo della comunicazione per […]
Vi scrivo per avere, se possibile, il contatto mail diretto di due vostri collaboratori, Leonardo Romanelli e Luca Maroni.
Vi ringrazio in anticipo per la vostra disponibilità, buona giornata
Romanelli si può fare, ma Luca Maroni? Ma quando, ma dove, (faccina e cuoricino).


5 vini da bere per riscaldarvi in questa gelida stagione

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Col freddo che fa, tipicamente, i blog se ne escono fuori con quei post stagionali sui vini adatti alla situazione climatica. Pure questo non fa eccezione, e difatti vi voglio proporre cinque vini, tratti dai miei appunti recenti, che sono perfettamente adatti al clima rigido di questi giorni. Enjoy.

Rosso di Montalcino 2012, Poggio Antico. Veramente un bel pezzo di sangiovese, possente, corpulento, un supertuscano travestito da vino cadetto. E invece: colore vivido, bocca saporitissima, infinita, una goduria pazzesca. Impressione immediata di vino importante, tutt’altro che piccolo, il genere di vino che mi fa venir voglia di dire al produttore “complimenti”. Certo ha un prezzo non lieve (almeno 25 euri in enoteca), tuttavia se consideriamo appunto la performance nel bicchiere non mi riesce di criticare nemmeno questo aspetto. Sito aziendale apparentemente non aggiornato dal 1923, pazienza. Io agli ilcinesi perdono tutto quanto.

Colli di Luni Rosso Nicolò V Riserva 2008, Lunae Bosoni. È terroir ligure? È toscano? I Colli di Luni stanno un po’ qua un po’ là, è una denominazione lib-lab. Questa versione di rosso appare decisamente toscanista: dimenticatevi cioè i rossi sottili e saettanti di Liguria, qui ci si rimpolpa coi vitigni internazionali, i legni piccoli, le concentrazioni. Nel caso poi c’è un altro ingrediente fondamentale, il passare del tempo, e alla fine eccolo qua questo rosso che non è più Liguria ma non è nemmeno solo Toscana e alla fine uno rinuncia anche a capire e se lo gode com’è: complesso, stratificato, col tannino ancora ben vivo. Il produttore è un fenomeno modernista, e su di lui i dibattiti si sprecano: ha forse tradito la mission contemporanea dei vini leggiadri? No, se non altro perché non l’ha mai intrapresa. Circa 24 euri in enoteca.

Gelso Oro 2013, Podere 29. Rosso pugliese afflitto da monumentalità, 100% uva di Troia. Per me una specie di vecchio amico, questo è solo un riassaggio recente, che ne conferma il tono profondo, oscuro. Ritrovo gli amati profumi di confettura di more, tutto sommato la gran frutta tiene a bada il resto del monumento che altrimenti risulterebbe ingombrante tipo quelle statue della Corea del Nord (prezzo scarsamente komunista, sui 26 euro). Ogni volta che riassaggio gelso oro, ormai amichevolmente detto, mi faccio il seguente film: i rossi del nuovo millennio che fanno della concentrazione un punto di forza si stanno riaffermando senza le pesantezze dei tempi passati. Oppure sono io che ragiono da fanboy? Ai posteri eccetera. Segnalo un difetto, quello sì molto rétro: la bottiglia pesa, da vuota, circa dieci chili. Ottimo per esercitare i bicipiti.

Elogio 2012, Eligio Magri (eh sì, gioco di parole). Ora, io non voglio fare qui l’influencer dei poveri, ma per una volta lasciatemi dire una cosa: attenti a questo vino. Un rosso bordolese in Valcalepio, e già questo suona prodigioso, 90% cab sauvignon e 10% merlot, barriques e tonneaux di rovere americano e francese per oltre un anno: ha una fittezza asfaltante, lungo con tendenza all’infinito, tannini elegantoni, attrattivo e quasi perfetto. Se andate a comprarlo in azienda lo trovate sui 14 euro, prezzo lodevole per tanta bontà. (L’intro sull’influencer è dovuta al fatto che in rete trovo poco o niente su questo vino, tranne questo articolo del Sole, quindi bravo anche l’altro collega influencer).

Malvasia delle Lipari Passito di Salina 2012, Colosi. Dimentichiamoci per un attimo i passiti ammalianti tutto miele e canditi del sud: intendiamoci, qui c’è anche quello, ma non solo. Durante un assaggio ho visto stappare due bottiglie di seguito a causa del corredo aromatico spiazzante (si temeva un difetto): non solo dolcezze, appunto, ma elementi terrosi, profondi, inaspettati. Alla fine dicevamo tartufi per usare un descrittore chiaro per tutti. Quindi opulenza e nello stesso tempo un carattere stupefacente, un vino che evoca il caminetto acceso, il sigaro, e fuori la neve che scende. Spero di avervi riscaldato quanto basta. Home aziendale di una certa originalità.

Too long, didn’t read. Dopo il disciplinare di VinNatur due settimane di dibattiti sul vino naturale riassunti per voi

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Per una volta comincio un post dai crediti dell’immagine principale: quella che vedete è di John Atkinson, viene da qui, e come si comprende (credo) è un compendio umoristico di alcuni classici della letteratura.

Nel corso degli ultimi quindici giorni il dibattito su quella cosa che si chiama vino naturale ha prodotto, all’incirca, svariate alternative a Guerra e pace. Per voi che siete sotto l’ombrellone, però non avete voglia di leggervi tutto quanto, provvedo io a un TLDR, che siccome siete cittadini del vostro tempo sapete benissimo cosa vuol dire. (Fate sì con la testa).

Classics - 2

►Tutto è cominciato (dovrei dire ricominciato) con la promulgazione del disciplinare VinNatur. Ecco il Tl;dr:

Facciamo vino naturale. Voi non ci credete né magari sapete che roba sia quindi ci diamo un’autoregolamentazione. Il ministero competente vigilerà, perché lo sappiamo che voi non ci credete (e due). Tutti quanti si dichiarano naturali ma noi siamo quelli seri. Segue elenco di cose che si possono fare, e che non si possono fare.

►Corrado Dottori colpisce forte e di rimando titola: Fine dell’insurrezione? Tl;dr:

Capirai, arrivano questi col disciplinare come se non ce ne fossero già altri. Comunque certificati, medagliette e stemmi, no grazie, io sono bello così. Fare vino naturale non è una questione di procedure, is a state of mind. VinNatur hai toppato, fuck the police, avete tradito la rivoluzione. Extra bonus, ‘sto consumatore che va tutelato ha anche rotto, ma che si arrangi.

►Ormai è fatta, siamo in pieno dibattito. Sulla certificazione Vinnatur titola anche Porthos. Tl;dr:

Mah, io non lo so, ragazzi, ma che diavolo, ma insomma, cosa vi prende. Tutto ‘sto casino divisionista di associazioni gruppettare, e sì che io vi conosco bene, lo fate apposta. Ma non sapete che l’unione fa la forza? Siete tipo quei politici che parlano di riforma del senato (chissenefrega) e perdono il contatto col paese reale: laggente non capisce. Comunque se volete saperlo l’idea su come fare un disciplinare ce l’ho, ed è meglio del vostro: dovete autocertificarvi, al diavolo il ministero, e buttarvi sulla biodinamica.

►Slowine è il più amletico di tutti: Certificazione si o certificazione no? Disciplinari si o disciplinari no? Dettori o Dottori? Tl;dr:

Ciao gente, vi piace il titolo? È perfetto, contiene tutto quel che serve (del resto Ale Dettori anni fa aveva già anticipato quasi tutto). Le risposte mettetecele voi. Non voglio banalizzare ulteriormente le loro argomentazioni.

►A proposito di titoli epici: La lenta marcia verso un Disciplinare del vino naturale condiviso: il disciplinare del “vino VinNatur” by Montes. Tl;dr:

Ciao gente, sono il kamikaze della perestrojka dei vini naturali, avete presente quello “c’è sempre uno più puro che ti epura”? Ecco, sono io. Pensavate di farmela, vero? E invece non va bene, non basta, ci sono un sacco di bug in quel disciplinare (segue elenco interminabile). Maule poi è cattivo come Steve Jobs, mette il suo logo e ci frega.

Chiusura amorevole, tuttavia, come da fonte: “Many of these books are timeless favorites. We love them and many of us will read them repeatedly. But having a laugh about the things we enjoy can totally be good for the soul”. 

Perché i vini al supermercato hanno prezzi pazzi e tu non puoi farci niente tranne mugugnare

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Come siamo messi a scontrini pazzi quest’estate? Io sono fuori dalla scena foodblog quindi non sono molto aggiornato, ma mi pare che la febbre agostana per l’indignazione da scontrino sia calata. E mi fa anche piacere. Ultimamente invece nei miei ritrovi sociali (no, non è ancora la bocciofila, parlo di Facebook) incontro volentieri cose come queste:

Glera

Si tratta, come vedete, di un topic immortale, i prezzi pazzi da scaffale al supermercato. I vigneron o gli eno-filiaci che postano queste foto hanno un sacco di ottime ragioni per stracciarsi le vesti: insomma, per citare solo l’immagine qua sopra, noi ci bulliamo infinitamente di bollicine col fondo, e poi ne trovi una a novantanove centesimi la bottiglia? E che diamine, chiaro che uno scazza male.

Anzi quando si postano foto così, è facile che i commenti prendano velocemente una piega fatalista del tipo “c’è di peggio”:

Franciacorta

Quando Natalino Balasso parla di quel che beviamo noi enomaniaci dice “alcolici dai prezzi inspiegabili” (per dire che spendiamo degli spropositi, se non fosse chiaro). Sarà che gli opposti si toccano, ma anche certi prezzi bassi sono difficilmente spiegabili. E siccome il virus contagia ogni denominazione, con gli esempi potremmo continuare all’infinito. Ecco che accade al sangiovese romagnolo:

Sangiovese

Quindi insomma, com’è possibile? Come mai? Che succede? Qual è il senso della vita?

Per come la vedo io le dinamiche dei prezzi nei supermercati, segnatamente quelle riferibili ai vini, sono regolamentate da un furore caotico che a confronto il big bang pare il soggiorno di mia suocera. Tra le possibili spiegazioni me ne vengono in mente tre. Può infatti succedere che:

1. I vini si vendono sottocosto. Non importa quanto sia stato pagato il prodotto all’origine, da queste parti la vendita sottocosto apparentemente è proibita tranne eccezioni regolate da una legge, Dpr 6 aprile 2001 n. 218, per il quale il sottocosto “è consentito solo un massimo di tre volte l’anno, previa comunicazione ufficiale almeno dieci giorni prima dell’intervento”. Insomma non si può tranne quando si può.

2. Il produttore si cala le braghe. Questa elegante formula tecnico-commerciale che non troverete nei manuali di economia fa riferimento alla possibilità che, in effetti, chi produce decida di liberarsi di partite a volte anche ingenti a prezzi inconfessabili, quindi quel vino finisca sullo scaffale a cifre imbarazzanti. Pochi maledetti e subito.

3. Il vino venduto a cifre imbarazzanti vale, in effetti, davvero quel prezzo. È il caso in cui diciamo “circolare, non c’è niente da vedere”.

Però tutto questo per me determina anche un altro inconveniente. Laggente, quando vede un certo prezzo, finisce per non ammettere più altri prezzi. Siccome è vero quel che dice un mio amico (“il prezzo sorgente è quello che uno paga”), è altrettanto vero che chi paga due quello che vale sei, avrà definitivamente fissato in due la cifra/valore di quel bene. Dopo sarà molto difficile modificare la percezione, e spiegare il concetto.

Le immagini sono state lietamente grabbate qua e là ma se qualcuno si lagna basta dirlo che le cancello, poi però vi cancello pure dagli amici.

Comunicati stampa che non volevamo ricevere ma siccome ci sono i Pokémon anche sì: “In Toscana cantine aperte”

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Riceviamo e per una volta supinamente pubblichiamo.
Le porte delle cantine del Movimento Turismo Vino Toscana si aprono eccezionalmente ai turisti per la vendemmia, uno dei momenti più importanti dell’anno. Violante Gardini (presidente MTV Toscana): «un’occasione unica per vivere l’emozione della fase più importante e delicata per produrre un vino».

Dal 17 al 18 settembre i Pokemon si andranno a cercare nei vigneti e nelle cantine del Movimento Turismo del Vino Toscana dove sarà festa grande con uno degli eventi più attesi dell’anno: Cantine Aperte in Vendemmia infatti permetterà a tutti gli appassionati di vino di entrare nelle aziende vitivinicole della Toscana in uno dei momenti più suggestivi dell’anno. Cavalcando il fenomeno dell’estate, quello dell’applicazione per smartphone Pokemon Go, MTV Toscana ha lanciato la sfida a tutti gli appassionati di vino: venite a cercarli nei vigneti mentre si raccoglie l’uva. «Naturalmente si tratta di una provocazione – spiega Violante Gardini, presidente del Movimento Turismo del Vino Toscana – anche se l’idea di rendere geolocalizzabili i wine lovers che arriveranno nelle nostre cantine in vendemmia potrebbe servire a rafforzare la rete che MTV ha creato tra le tante aziende aderenti anche a questa iniziativa, per noi significativa perché permette a chi non lo ha mai fatto di vivere uno dei momenti più particolari del ciclo di produzione di una bottiglia di vino.

——

Ok fine della parte di comunicato stampa che ci attizza. Perché oh ma aspetta un attimo, allora ‘sta roba dei Pokémon in vigna non era del tutto una fantasia malata? Andy Gori un mese fa scriveva appunto PokemonGo spiegato bene: cos’è, come funziona (e cosa può fare per voi e il vostro vino). Fammi rileggere un po’ di commenti? Ma sì dai. Senti senti che avete scritto, brutti miscredenti:

“Ed in nome del più solipsistico cazzeggio ingrassiamo le multinazionali”.
“Pur non avendo nulla contro le novità digitali trovo che con il vino questo non c’entri nulla. Proprio per questioni di marketing”.
“Trovo raccapricciante che le persone se ne stiano a mangiare con il telefonino in mano e ancora peggio che una passeggiata tra le vigne si tramuti in una caccia al pokemon”.
“Uno scenario da incubo, una catastrofe, il punto zero del vino, delle vigne, dei vignaioli, di tutto”.
“Bande di fottuti cazzoni distratti e indifferenti a tutto fuorché al Pokémon”.
“Lo ritengo assolutamente inadatto per enoteche, ristoranti e aziende vinicole”.

Evabbè si scherza dai. È ancora mezza estate e c’è scappato il post in modalità gne-gne-gne. Soliti cuoricini a tutti.

Le vendite in Cina durante 9.9 Global Wine & Spirits Festival hanno funzionato o no? Luci e ombre nella grotta di Alibaba

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Lo scorso nove settembre Alibaba ha ospitato un mega evento dedicato alla vendita online di vino, destinato ai consumatori cinesi, attraverso il suo sito business to consumer per il mercato interno, Tmall. Nine-point-nine (9.9) Global Wine & Spirits Festival ha messo assieme brand di tutto il mondo, da Mondavi a Gallo (USA) a Lafite (Francia).

Vini, ma anche distillati, per esempio Suntory dal Giappone. C’erano spagnoli, neozelandesi, e anche italiani. L’idea era di creare un evento simile al black friday americano (l’iniziativa peraltro aveva una durata maggiore, essendo iniziata il primo settembre, e culminata nel giorno nove). Il numero nove, inoltre, in cinese si pronuncia Jiu, che significa alcol ma anche longevità e benessere.

Come sono andate le vendite? Non del tutto bene. Vediamo di riassumere un po’ di passaggi.

Cos’è Alibaba, e perché dovrebbe interessarci? Il termine che più volentieri si associa a Alibaba è colosso. Dell’e-commerce, per la precisione: è una sorta di Amazon destinato alla vendita business-to-business. Su Alibaba vendono i produttori cinesi (i clienti sono i potenziali importatori di qualsiasi prodotto cinese, nel mondo) e si affacciano anche quanti vendono al mercato cinese, attraverso sistemi di mediatori. Questo è l’aspetto forse più complesso e ancora meno agevole.

Per capire meglio ho registrato il mio account su Alibaba. La percezione ottenuta finora è quella di uno sterminato, ribollente magma di produttività manifatturiera, un enorme grossista (ma si trovano anche pezzi singoli) che attende di trovare canali dove riversare la sua lava. Insomma la Cina come supervulcano della produttività globale: se ci guardiamo allo specchio, o in tasca, verifichiamo facilmente quante delle cose che ci circondano sono prodotte in Cina. Non c’è bisogno di scendere in altri dettagli, semmai riflettiamo sul fatto che da noi la produzione è quella che è, in calo verticale, e delocalizzata. Là invece serve un Alibaba per organizzare la potenza produttiva (che pare appunto, scusate nuovamente la metafora geologica, un supervulcano).

A differenza di Amazon, la creatura di Jack Ma non ha ancora la pervasività di chi ti conosce bene e immagina cosa ti serve – del resto non ho effettuato acquisti ma solo ricerche.

jack-ma

E la vendita del vino allora? È stata un successo? Un fallimento? Nessuna delle due cose, anche se i toni entusiastici che si sono letti in giro, da subito, forse vanno ridimensionati. Durante l’evento su Tmall svariate aziende italiane hanno attivato un loro shop e da lì sono partite le vendite. Cronache di Gusto riporta “100 milioni di vendite, il Tignanello esaurito in poche ore”. Ma quante fossero le bottiglie di Tignanello rispetto al generico cento milioni non è dato sapere.

La scarsa trasparenza sui numeri è tra i punti poco chiari dell’operazione. Per la verità qui nel gruppo intravinico quasi da subito ci sono arrivati rumors che tendevano a diminuire l’impatto positivo dell’evento, ma nessuno tra quelli ha voluto dirci qualcosa di ufficiale.

(Questo per la verità è un fatto che ci è familiare, “ditelo voi di Intravino”, perché ormai siamo identificati come i rompipallone del giro enoico, ma questa è un’altra storia e magari ve la racconto un’altra volta).

A toglierci dall’imbarazzo arriva Decanter China che definisce il 9.9 Wine Festival di Alibaba “un coraggioso errore”. La firma è di Terry Xu, “one of China’s most influential opinion leaders in wine”. Insomma, sono stati coraggiosi, ma hanno commesso qualche errore. L’attenta analisi di Terry Xu identifica, infatti, alcuni aspetti molto positivi riguardo l’intera operazione, che si alternano ad altri che potremmo definire critici, tali da non consentire una valutazione totalmente favorevole. Cominciamo a vedere quali sono i primi.

Cosa è andato bene. La comunicazione pubblicitaria prima dell’evento, per esempio, è stata molto efficace. Questa ha consentito, quindi, un numero altissimo di accessi a Tmall, che ha la struttura di un centro commerciale con i suoi negozi. Questi periodicamente organizzano un festival di vendite sul loro settore, e 9.9 Wine Festival è stato quello a tema vino. (Nota personale: Tmall si è dotato del classico software di riconoscimento locale del visitatore, in questo momento mi sta traducendo in italiano quel che gli è possibile, ma ciò non impedisce l’uscita di arcani messaggi di errore del tipo “Ow, il contenuto è il dinosauro mangiare, si prega di aggiornare la pagina per riprovare”). Infine, e soprattutto, Terry Xu individua nelle enormi potenzialità future del meccanismo gli aspetti che consentono il maggiore ottimismo, anche alla luce dell’esperienza fatta. A questo proposito si pensa già alla prossima edizione del Wine Festival.

Cosa è andato male. Il problema maggiore sono i numeri: a fronte della grande attenzione ottenuta, “i consumatori non hanno comprato tanto quanto ci si aspettava”. Alibaba inoltre ha annunciato di non avere intenzione di comunicare il fatturato delle vendite. Il numero noto, finora, è quello relativo ai 100 milioni di clienti raggiunti. Si apre qui un’analisi interessante, e per molti versi ben nota agli addetti: Terry Xu individua nella natura speciale del vino la difficoltà maggiore connessa alla sua vendita. Sono necessari, nel caso, sforzi comunicativi molto approfonditi, soprattutto considerando il target dei consumatori cinesi. Tra questi manca, anche, la percezione del valore: se quasi tutti sanno valutare la convenienza del prezzo di una bottiglia di Coca Cola (Terry fa specificamente questo esempio), dato il valore noto uguale, poniamo, ad un Euro, una bottiglia che costa 50 centesimi è conveniente, mentre la stessa in vendita a tre Euro sarà fuori prezzo. Ma tale equivalenza pare impossibile da praticare, per il consumatore cinese, se riferita a un prodotto assai meno familiare come è il vino – nonché assai meno standardizzato, aggiungo io.

Non troppo nuovamente, si rileva la necessità di associare al vino un termine che finora ho cercato di evitare ma ora, scusate, eccolo: storytelling.

[Crediti immagini: Antiweb.plWebeconomia.it]

Vedi come sei? Catalogo umano e disumano di strani tipi che popolano l’enomondo

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Sono intorno a noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi. La citazione del poeta m’è venuta facile, perché quelli che sono nel nostro giro (enomondo, l’abbiamo chiamato) li conosciamo e un po’ ci somigliano, è il catalogo umano che si trova nel quartierino: alle fiere, in cantina, sul uebbe, ci sono sempre questi qua.

La lista manco a dirlo è incompleta, le liste devono essere incomplete sennò che hanno messo a fare il form per i commenti? Enjoy (toh, ho fatto un’altra citazione).

Il nabbo. (Che è un’italianizzazione di newbie, novellino). È arrivato da poco nel giro ma sospetta che ci si diverta parecchio, ed è destinato, a seconda dei casi, a diventare uno degli altri descritti qui sotto. Ancora non ci capisce molto e difatti legge i blog.

Il sommelier di successo. Vorremmo tutti essere come lui: guadagna una fortuna col suo mestiere di roteatore di calici. Può essere giornalista, brand ambassador, consulente, direttore commerciale, o tutte queste cose assieme. Ha il sereno distacco di chi è arrivato molto in alto, e dice che bisogna smetterla di usare un linguaggio troppo tecnico, che non bisogna prendersi troppo sul serio, eccetera. Appena fai una battuta su di lui ti querela. Per il resto è quasi sempre uno in gamba.

Il sommelier sfigato. Ha fatto ogni corso possibile, gira sempre in divisa o perlomeno con la spilla, ma se gli va bene fa qualche servizio alla fiera del porcello lesso e prende tra 50 e 100 euro a servizio, in nero. Detesta la parola “servizio” perché evoca altro. Sul vino dice volentieri minchiate clamorose, non ci capisce moltissimo ma nessuno osa contraddirlo, perché è in divisa.

La cariatide. Ha tenuto a battesimo Veronelli. Era fidanzato con la nonna di Soldati. Ha messo a dimora le barbatelle di Fiorano. È stato tra i fondatori anziani di Slowfood, Ais, Onav, e il fanclub di Ave Ninchi. Alle fiere se ti attacca bottone sei un uomo morto.

Il guidarolo. Scrive per le guide. Ogni volta che legge “le guide del vino sono morte” gli prende un accidente. Se non ha ancora aperto un blog, sta per farlo. Spende tutto quel che guadagna in psicoterapia.

Il produttore di successo. Ce l’ha fatta e se l’è proprio meritato. Ora vola alto, nel senso letterale perché spesso è su un aereo tra Pechino, Los Angeles, Tokio, Orvieto. Ha il sereno distacco anche lui, tutti lo idolatrano e ne scrivono solo bene. Appena uno si azzarda a scriverne male gli altri intonano, in coro, “è solo invidia”. Nulla lo potrà scalfire e ha lo sguardo buono, benedicente, sopporta con pazienza la fauna che gli sta attorno perché è un fatto inevitabile ma dispensa spesso consigli, buffetti, ha una parola buona per tutti. È posh, è glam, è stardom. Quando smette di parlare inglese parla all’improvviso nel suo dialetto, se ne accorge, si ferma un attimo, e si commuove. Ma è un attimo.

Il produttore bio. Quello che il sovescio. Il vino naturale. Il cornoletame, il preparato 501, Demeter. Quello che fotografa il diserbo fatto col napalm nel vigneto del vicino, e lo posta indignato sui social. E ha le sue buone ragioni perché lui invece diserba a mano, filo d’erba per filo d’erba tra l’interfilare, e si fa un culo così. Poi gli tocca vedere quel testina del vicino che spande Roundup come fosse ketchup sul big mac. Il produttore bio è incazzato notte e giorno. La cosa che lo fa incazzare di più è che “qui ormai sono tutti bio”.

Il commerciale. Lui il vino lo vende, quindi c’è poco da scherzare. Si fa sul serio. Non c’è tempo per distinzioni, buoni e cattivi, kimika o naturali, bisogna fare il fatturato. A volte è un sentimentale e sceglie di vendere solo quello che gli pare buono, pulito e giusto: per questo gira in bicicletta, e solo quando incrocia il suo collega che vende Bellavista, sull’Hummer, sospetta di aver sbagliato qualcosa.

L’assatanato del vino naturale. Per lui niente è abbastanza naturale, bisogna tornare ai primordi, alla preistoria, al big bang enologico. Qualsiasi tecnologia è satana e si dichiara favorevole alle leggi razziali che facciano piazza pulita una volta per sempre di ogni lievito selezionato. Gli piacciono i kvevri, beve vini bianchi che hanno il colore del rame esposto alle intemperie, reclama i cavalli nel vigneto, scrive “kimika” con la k come Kossiga. Ha rotto i coglioni a quasi tutti, tranne ai produttori che sponsorizza. Nessuno sa che lavora alla Bayer.

La pierre. (Questa è descritta come femmina, esistono anche pierre maschi, ma è venuta fuori in versione femminile). Una vita passata ad hashtaggare, condividere, instagrammare, ritaggare, ritwittare. Usa parole come wechat, snapchat. Mette il diabolico cancelletto dappertutto: #wine, #winelover, #winery, #wineevent, #trovatemiunfidanzato. Dice di fare #promozione, #comunicazione, #culturadelvino. Si misura il klout, conta i follower, soppesa i reblog. Nessuno sa che è astemia.

Il giornalista. Va in giro dicendo di essere iscritto all’ordine quindi di essere l’unico titolato ad andare in giro. Quelli che sono già in giro per i fatti loro lo guardano e gli dicono “embè?” – e tutti gli danno addosso manco fosse appestato. I produttori postano screenshot di giornalisti intenti a piatire qualcosa, i blogger con loro fanno gli spiritosi, tanto che alla fine i giornalisti risultano quasi simpatici. I vigneron li filano quel tanto che basta in attesa di una recensione favorevole. Dopo, il produttore di quel vino va in giro a bullarsi e momentaneamente il giornalista torna presentabile.

Il blogger. Trova un senso alla sua vita osservando quelli qua sopra. È convinto di essere autorevole, usa parole come influencer, pensa di fare letteratura ma scrive “un altro” con l’apostrofo. Crede pure che un giorno il lavoro del blogger diventerà un lavoro, nel senso della retribuzione, ma quel giorno il blogger sarà morto. Per il momento si diverte come può, rompendo le palle ai giornalisti che fino a mezz’ora fa pensavano di gestire da soli l’orticello, o mendicando un qualsiasi riconoscimento quando scrive di un vino. I migliori sono quelli indie ma alla loro indipendenza ormai non crede quasi nessuno.

E solo ai migliori potrà capitare di scrivere su… no, va be’, questo non lo dico.

Crediti immagine: Abc.net.au

Sui punteggi centesimali e sui vini da 100/100. Così parlò Robert Parker

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Nei giorni scorsi rileggevo una vecchia intervista a Robert Parker, su Drink Business. Per definire il ruolo di Parker nella storia del vino di qualità durante questi ultimi tre decenni si finisce spesso per usare varie formule iperboliche, per lo più giustificate. Alla fine per me è molto agevole usare le poche parole nell’introduzione all’intervista: “the most influential man in the wine industry for over 30 years”.

Sperando con questo di essere stato conclusivo, tornando sulla lunga lettura (prendetevi il tempo necessario) ho trovato questi passaggi di qualche rilevanza – sarà anche il periodo delle guide in uscita, fatto di classifiche e punteggi.

Si parla, nel caso, dei famigerati cento centesimi. Per chi non lo sapesse Parker, e Wine Advocate, la sua creatura editoriale, non sono insoliti dare (a pochi vini, certo) questo punteggio in effetti un po’ imbarazzante per molti assaggiatori. Nella scala di punteggi centesimali i 100/100 si identificano con l’idea di perfezione, che confligge con quell’altra idea che abbiamo, per la quale la perfezione non è di questo mondo. Vale per il vino, e per tutto il resto.

Ecco cos’ha da dire Parker in proposito.

Domanda: qual è la differenza tra un punteggio molto alto, ed un perfetto “100 punti”?
Risposta: per me, la differenza sta nelle emozioni del momento – il vino deve evocare emozione – proprio come l’arte, la musica, la bellezza, deve esserci una reazione emotiva, e i grandi vini devono essere emozionali. E quando il vino nella tua mente è il miglior campione mai assaggiato rispetto a quel vino specifico, tu hai l’obbligo di dare un punteggio perfetto.

Successivamente, Parker puntualizza che la grande esperienza maturata aiuta molto a fornire un punteggio preciso, avendo accumulato nel tempo una maggiore memoria sui parametri. Alla fine conclude con: ” I think it’s irresponsible not to give a perfect score if you think the wine is perfect”.

Domanda: è mai rimasto deluso da un suo vino al quale ha dato il punteggio “perfetto”?
Risposta: intende quante volte tornando indietro ad assaggiare un vino da 100 punti io confermi il punteggio? Probabilmente nel 50% dei casi, ma il più delle volte – e ci sono state poche eccezioni – sono in grado di capire perché l’ho trovato perfetto, quella volta.

Un paio di considerazioni personali, adesso. I punteggi nella valutazione del vino sono visti, da larga parte degli enofili, come una robaccia esecrabile: essendo troppo sommari, sono semplicemente inadeguati a definire un vino. Ora, guarda caso io sono uno che usa i punteggi. Tuttavia l’aspetto che più di tutti mi colpisce è quest’idea del punteggio “mobile” (non saprei definirlo in altro modo) quando Parker dice che riassaggiando nel tempo vini da 100/100, al 50% non ottengono lo stesso score. Il paradosso contenuto in questo passaggio potrebbe, da un lato, essere proprio usato dai detrattori dei punteggi per definirli una volta per tutte inaffidabili.

Oppure potremmo dire che quel tipo di storicizzazione del punteggio rende il sistema più accettabile, in quando mobile. Ovvero in quanto definisce, oltre che il vino, la condizione direi sentimentale dell’assaggiatore. Basta intendersi, però.

[Crediti immagine: Wsj.com]


All’osteria: la perversione dell’enofilo. Sì, è anche tua

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E adesso vi racconto la mia perversione più recente. Riguarda gli assaggi, però. Io e il mio amico andiamo la sera per osterie, che già detto così pare brutto, ma io posso sempre giustificarmi con “scusa cara, è per lavoro”. E il bello è che c’è davvero qualcosa di professionale in questi giri, è un po’ come quelli che non smettono mai di lavorare anche quando si divertono. Oppure c’entra quella cosa dei social network, dell’always-on, sei sempre connesso e il privato diventa inestricabilmente pubblico, e nemmeno sai se l’hai deciso tu o a un certo punto ti sei consegnato anima e corpo al grande fratello – quando è successo, esattamente? Fatto sta che ormai ci sei dentro.

Sei per i fatti tuoi e con la coda dell’occhio vedi l’alert del messaggio sul display del cellulare, è una cosa lavorativa – leggi, rispondi. Pensi solo dopo che è mezzanotte, e sei nel tuo letto. Ma cosa diavolo?

Allora pensi di ribellarti solo un po’, esci per osterie col tuo amico. Ma una parte di te continua a pensare al lavoro, cioè tecnicamente sta ancora lavorando, in automatico. Per esempio io ultimamente cerco nelle carte dei vini – quando ci sono, sono scritte su lavagne o carta da pacchi a mo’ di tovaglia sui tavolini sconnessi – e cerco i vini che detesto.

Ora, ognuno di noi ha qualche tipologia di vino distante dalle nostre preferenze. Ci sta, siamo umani. I vini che si piazzano molto, molto distanti sono quelli detestabili. Magari è lo stile produttivo, ma a volte è solo il produttore antipatico. (Per la verità il produttore antipatico ha anche uno stile produttivo detestabile ma qui il discorso si fa lungo). Quindi stasera sono uscito, tecnicamente sono rilassato col mio amico all’osteria, e con lui (e lui è come me) vedo in carta il vino di quel maledetto puzzone puzzonista militante, quel maledetto cialtrone che imbottiglia aldeide acetica non filtrata. Ordiniamo quello. Caspita voglio proprio riberlo. Poi vediamo un altro vino, di un altro produttore – e pure quello, lo sappiamo bene, mette in bottiglia robe odiose. Ordiniamo pure lui.

Sento di farlo per spirito professionale, lavorativo insomma. Ne approfitto per restare aggiornato.

Alla fine al tavolo ci scambiamo opinioni, non riferibili in società a causa dei termini. Però è tutto bellissimo, più ci indigniamo e più ne beviamo, e ad alta voce partono i primi insulti pesanti: “ma chemmerda, ma senti che roba mette in giro, ma come si fa. Chi beve questa vaccata?” – e via così.

Bisogna vedere la faccia del ragazzo che ci serve al tavolo. Porta le bottiglie, ascolta i nostri commenti. Alla fine non riesce a tacere: “scusate, se c’è qualche problema… lo cambio”.

Ma no, andava tutto benissimo, davvero. Se mi leggi, ora, hai capito che c’è. Torniamo domani sera.

[Immagine: Gazzetta di Modena]

Bob Dylan merita davvero il Nobel per la letteratura? Il titolo è clickbait quindi la risposta è all’interno del post

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Con qualche giorno di ritardo partecipo anch’io al dibattito: “Bob Dylan merita davvero il Nobel per la letteratura?”

Svolgimento.
A me Dylan non è mai piaciuto, proprio non lo sopportavo e nemmeno adesso mi piace. Diciamo che non è il mio genere, tutti i gusti sono gusti, eccetera. All’inizio del millennio però la rivista Rolling Stone pubblicò una classifica dei migliori pezzi del secolo precedente, e in cima alla classifica c’era “Like a rolling stone” di Dylan. Naturalmente mi indignai ma a quel tempo Facebook era ancora sulle ginocchia di Giove quindi non potevo esibire degnamente la mia indignazione. Peraltro io “Like a rolling stone” non l’avevo MAI sentita in vita mia, quindi l’indignazione per una roba che non si conosce era perfetta per le reti sociali – ma appunto, peccato che FB ancora non c’era. Dopo un po’ (14 febbraio 2005) qualcun altro inventò Youtube, e allora molto tempo dopo andai a cercarmi ‘sta dannata canzone, per capire che avesse mai di speciale.
Be’, com’è come non è, la prima volta che la ascoltai dissi “ma che cazz, è tutto qui”.

Proprio come succede quando assaggi certi pinot nero di Borgogna che tutti ti fanno una palla gigantesca su quanto è superiore il pinot nero in Borgogna, tu lo assaggi e dentro di te una voce urla “ma sticazzi”, come a dire, beh, tutto qui?

Poi però ne versi ancora un po’. Lo lasci nel bicchiere. Lo riassaggi. A un certo punto succede qualcosa, senti che non puoi smettere di riberlo. Ti arrabbi con il te stesso-assaggiatore, con la parte di te che evidentemente non è ancora in grado di giudicare un vino, siccome cambi idea a questo modo. Mentre pensi a questo sei al terzo bicchiere e ti guardi allo specchio e ti mandi serenamente a quel paese.

Così giorni dopo torno su Youtube e riascolto Like a rolling stone. Ancora una volta, poi un’altra. Poi mi vado a studiare il testo, la storia. Oggi l’mp3 di Like a rolling stone è nel mio cellulare in mezzo a cose che, probabilmente, stanno al pinot nero di Borgogna come il frizzantino che imbottiglia Maschio. Absit iniuria etc.

Quindi per me sì, anche per questo Bob Dylan merita davvero il Nobel per la letteratura.

Qua sotto, la versione che preferisco.

Luca Gardini testimonial del vino Eurospin da 1 euro e 89. Ma il sommelier campione del mondo può tutto

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E quindi anche Eurospin ha il suo testimonial per i Vini Integralmente Prodotti, simpatica supercazzola (perfettamente legalese) per dire che “chi coltiva e raccoglie le uve, le vinifica ed imbottiglia il vino ottenuto è la stessa azienda”. Si piazzano sugli scaffali con prezzi molto hard tipo un euro e 89, lasciandosi dietro a molte lunghezze la Lidl con le famose schede del Gambero Rosso.

vip

Luca Gardini sdogana finalmente quelle etichette intorno ai due euro la bottiglia che solo voi, dannati soloni, pensavate fossero, come dire, di difficile abbinamento. Che sciocchini.

Come fosse uno chef stellato alle prese con le patatine, il sommelier campione del mondo 2010 ci assicura delle elevate qualità di questi vini. Il testimonial è fondamentale, no? Anzi, io sono certo che se Luca Gardini prestasse il suo volto ad altri articoli, le vendite farebbero il botto. Per esempio:

1. Il coltello dello Chef Tony. Quello che taglia qualunque cosa, qui per magia taglia i prezzi. Perché diavolo pagare ventitrè euro un barbera astigiano quando calando la mannaia stacchi via uno zero, e lo paghi 2,39?

2. Il materasso Memory. Io sarei un po’ stanco di vendere vini di qualità. Lo sei pure tu, lo siamo tutti, che stanchezza fare ‘sti discorsi fumosi sui vini costosissimi. Ho bisogno di riposare, mi serve un materasso che si ricordi di me, che mi memorizzi, e mi ricordi e mi rimentalizzi anche sul perché insisto a fare questo mestiere. Meglio se è parlante.

3. Prostamol. Vescica debole? Scappa la pipì? Mentre voi perdete tempo dietro agli ingredienti sull’etichetta, dovreste sapere che più dell’80% del vino è fatto di acqua. Gli effetti diuretici sono evidenti ad ogni coda davanti ai WC di un qualsiasi Vinitaly. Quindi un sommelier campione del mondo sarebbe perfetto per spiegarci i vantaggi di Prostamol.

Evabbe’, qui si ride per non piangere. Diciamo che quello è un po’ il marchio aziendale. Però ragazzi miei, che fatica, a volte. Mi ci vuole questo Verduzzo per tirarmi su. Euro 1,69.

Che cos’è uno Sponsor Post

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Uno dei sistemi che abbiamo da queste parti per finanziare Intravino è lo Sponsor Post: si tratta di contenuti a pagamento, in sostanza di pubblicità, nella forma del post. Quindi uno spot che narra qualcosa, nei modi colloquiali che ci sono propri, e che attraverso la conversazione promuove un prodotto.

La ricerca di remunerazione per chi genera contenuti su internet è un fatto risalente. Intravino non ha inventato nulla con gli sponsor post, ci siamo infilati in un flusso preesistente, in parte lo abbiamo anticipato e in parte ne abbiamo assecondato i modi, affinché quel flusso fosse chiaro e trasparente.

La prima cosa che ci stava a cuore era infatti rendere chiaro che la pubblicità è pubblicità, cioè è un contenuto distinto da tutti gli altri. Per questo l’immagine che lo accompagna ha su scritto “Sponsor Post”, il termine è ripetuto, e comunque viene sempre rilanciato affinché il lettore sappia che sta leggendo uno spot pubblicitario, non un post come gli altri. Riassumendo: quando leggete Sponsor Post leggete un contenuto a pagamento commissionato dall’inserzionista, che è l’oggetto di quel post. Terminata la parte un po’ didascalica (scusate) aggiungiamo altro.

A noi piacciono le conversazioni. Le conversazioni avvengono con parole umane. La pubblicità, per come la conosciamo, non usa parole umane. Spesso purtroppo è invadente, è irrispettosa, e riesce a insultare l’intelligenza di chi la riceve. Noi crediamo che la comunicazione pubblicitaria possa essere svolta, anche, con parole umane.

Intravino, per esempio, non vi accoglie coll’irritante pollicione “metti il like alla nostra pagina Facebook”. Naturalmente ci piace ricevere quel like, anzi, nel caso fatelo pure, ma ci piace di più accogliere chi legge in modo rispettoso. La stessa cosa facciamo quando compiliamo uno Sponsor Post: non usiamo il linguaggio privo di senso della pubblicità, fatto di formule tanto iperboliche quanto improbabili. Preferiamo conversare. Quel che state leggendo adesso è una conversazione.

Infine ci pare che questo sistema pubblicitario sia, più di altri, veritiero. Insomma ecco perché.

[Questo post era finito in un cassetto qualche era geologica fa, “prima o poi lo devo pubblicare” ma rimanda oggi, rimanda domani, esce solo adesso. Vabbe’. A proposito di cose vecchie, l’immagine viene da qui].

Al volante di questo Tir carico di Budweiser non c’è nessuno

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Se avete sentito dire che i robot stanno per cancellare (più o meno presto) il lavoro per come lo conosciamo, questa notizia potrebbe non sorprendervi: un Tir carico di birra Budweiser ha percorso 190 chilometri, lo scorso 20 ottobre, “utilizzando un camion a guida autonoma di Otto, la startup acquisita da Uber”.

La guida autonoma è in sostanza un tipo di guida senza l’autista, anche se un umano resta presente nel veicolo – in questo caso, comodamente rilassato nella cuccetta. “È come un treno che va su binari fatti di software”, afferma un addetto nel filmato che vedete qua sotto. Certo, assistere al pilota che abbandona il volante e si piazza nel retro fa un certo effetto.

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Ci piace pensare che nel relax totale il nostro guidatore si sia concesso anche una lattina di Bud. Ma è improbabile, siccome alla fine l’autista serve ancora, sia per “monitorare il corretto funzionamento del sistema” che per le manovre attorno ai magazzini. Il futuro sta arrivando, ad una certa velocità.

Vini di Vignaioli 2016 a Fornovo è in cima alla classifica delle mie fiere preferite

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Tornando da Fornovo mi accorgo che manca ancora una classifica all’elenco di tutte le classifiche che abbiamo compilato finora. Non trovo quella sul gradimento, o l’importanza, delle fiere del vino. Come mai ci siamo distratti su questo? Io quando compongo qualche hit parade uso una formula mobile e sfumata, nei termini. Per esempio: “in Italia tra le prime cinque rassegne sul vino, in ordine di rilevanza, c’è Vini di Vignaioli di Fornovo”.

Oppure, ancora meglio: “tra le prime tre”. Ecco, per la verità io dico che Fornovo è tra le prime tre.

Cos’ha Vini di Vignaioli in più, e meglio, di altre fiere? Un punto potrebbe essere la risalenza: è stata una fiera che molto presto ha indicato una precisa filiera (non mi riesce di definirla meglio) fatta di vigneron che hanno sensibilità per lo stile produttivo, quindi il vino naturale, e l’artigianalità della produzione. Certo assieme a Fornovo c’erano altri, c’era il network veronelliano: il movimento del vino naturale non nasce in provincia di Parma. Ma appunto Vini di Vignaioli col tempo s’è guadagnato un ruolo centrale, fino a divenire un rito quasi irrinunciabile per molti.

Perfino il dibattito del lunedì mattina (quest’anno sulle vegetazioni in vigna compatibili col vigneto naturale) mi sembrava attraente, pure con questo tema così squisitamente da addetti ai lavori – e parlo di lavori da contadino, quindi non il mio. Io che sono estraneo a quel lavoro seguivo con un notevole interesse, prima ancora che l’oggetto dell’incontro, la concentrazione con cui i vignaioli presenti nella sala interagivano col relatore, chiedevano, si informavano, cercavano di identificare ogni possibile aspetto di naturalità delle procedure, in modo da applicarle una volta tornati a casa.

Perché diavolo questi uomini, e donne, non se ne sono restati a dormire, lunedì mattina? Cosa li ha portati in una stanza a discutere di sovescio, di quali erbe lasciar crescere in vigna, e quali invece a seconda del terreno sono meno adatte? Qualcuno pensa che la scelta della conduzione naturale del vigneto sia uno schieramento di marketing. Oppure le cose stanno in un altro modo, cioè fondamentalmente è tutto vero: si fa vino naturale pensando che quel prodotto possa essere migliore. Non voglio dirvi come la penso, spero si capisca (è la numero due, dai).

Fatta questa premessa un po’ lunga potrei ora segnalarvi, com’è uso, qualche assaggio tra quelli davvero numerosi fatti in due giorni a Fornovo. Ma siccome non ero solo, nel team intravinico, è pure possibile che altri vorranno dire la loro. Quindi io proverò, su questo, a essere breve.

Il vino dimenticato/1
Carlo Tabarrini aveva queste bottiglie avvolte dalla polvere, anzi direi una specie di sottile strato di terra, tipo certi Vintage Port, se avete presente. Che roba è? Il suo primo rosso mai prodotto, del 2009, rimasto nascosto in un’altra cantina ed ora riesumato per gli amici. È un sangiovese intenso, complesso, con un finale morbido e un retro di cioccolato. Assaggio unico nel suo genere, beato chi lo ritrova – ma utile a capire il Rosso 2015 (quello contemporaneo, insomma) che è bizzoso quindi promette bene. Assieme a questo consiglio smodatamente il suo Trebbiano 2015, che gioca una partita perfetta tra consistenza e finezza.

tabarini

Fruit bomb ma sia detto senza offesa
Il Negramaro 2014 di Francesco Marra, va be’, come faccio a farmi perdonare? Mi piace per quella frutta gloriosa che ha. Però ci sarebbe da dire, anche, che i vini declinati in questa maniera, a Fornovo, non mollano mai la presa quanto a personalità. Non sono seduti, non si limitano a compiacere con la frutta, sono in grado di andare oltre, sono giocosi ma non banali – questo era uno di quelli, per me. In enoteca sta sui 22 euri. Peraltro comprato per casa il loro extravergine, meraviglioso.

E sempre a proposito di frutta
Non c’è gloria a parlare di Stefano Amerighi, siccome questo gentiluomo è ultranoto nello scenario di chi beve cose che generano felicità. Tuttavia solo nell’ipotesi che a qualcuno sia sfuggito, il Syrah 2013 era una bellezza di spezie e confetture accennate di frutta nera, scattante, ma col fisico bello tonico. In enoteca sta sui 23 euro.
(Alert: questo m’è piaciuto così tanto che l’ho comprato per la mia bottega, quindi conflitto di interesse detected).

Il vino dimenticato/2
Il signor Cerruti sa come farsi voler bene. Estrae furtivo una mezza del suo Sol, moscato passito, ma sopra c’è quell’adesivo con scritto 10. Dieci che? Euro? No ovviamente – è una barrique di Sol “dimenticata” per dieci anni, e poi ritrovata. Il contenuto s’era volatilizzato, ormai, per più della metà ma quel che restava (sorpresa, sorpresa) si rivela un assaggio epico tra frutta candita, miele di ogni varietà, e freschezza che ancora lascia senza parole. Rispetto al Sol “normale” costerà più dei consueti 28 euro (circa) la mezza, ma ce n’è pochissimo, e probabilmente si venderà solo in azienda. Siete avvisati.
(Ezio Cerruti non ha un sito quindi ecco i dati in old economy: Strada Comunale Balbi, 8 – 12053 Castiglione Tinella Cuneo. Telefono 0141 855240).

cerruti

Consigli dalla regia
In mancanza di fantasia arrivano i social network in soccorso. Via Facebook ricevo questa segnalazione di Alessio Pietrobattista, assaggiatore cult in forza a una certa guida, I Vini d’Italia 2017 de l’Espresso, di cui avrete sentito parlare. Alessio dice “Zibbo davvero interessante” e io prontamente cerco, e trovo. Consiglio doppiamente gradito visto il voluminoso cannonau prodotto da Cantina Canneddu, che si inserisce velocissimo nella mia lista “da comprare”. Che da queste parti, alla fine, resta un parametro non secondario.

zibbo

In questo articolo de La Nuova Sardegna un approfondimento sull’azienda di Mamoiada.

Pensieri tra noi: dallo spacciatore di merendine a un venditore di vino

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Cari i miei araldi della libera impresa, oggi vi voglio raccontare una storia che un po’ forse ci rileva, magari un po’ no ma alle solite tocca a voi connecting the dots e tutte quelle altre belle cose. La nostra storia comincia così, copio e incollo da Repubblica Torino:

“Uno studente diciassettenne dell’Itis Pininfarina di Moncalieri ha scoperto di avere la stoffa del vero imprenditore. Si è messo a comprare merendine, che poi rivendeva ai compagni a un prezzo più basso rispetto al bar della scuola. La cosa ha preso piede e il mercato è diventato molto florido. Così florido che i professori se ne sono accorti e lo hanno sospeso per una decina di giorni”.

E questo è solo l’inizio. Le vicende virgolettate risalgono all’anno scorso. Lo studente in questione tra l’altro è stato bocciato, e la sua attività di imprenditore in nero non pare estranea al brutto risultato scolastico. Com’è, come non è, il nostro non si dà per vinto. Quest’anno, ricominciata la scuola, riavvia la fiorente attività lucrativa. E viene ribeccato dagli sbirri, o dalle bidelle, quel che è. Siamo daccapo ma stavolta c’è l’aggravante della recidiva. Il nostro (che comincia a starmi simpatico, lo ammetto) se la vedrà brutta.

A poco vale quel che (di nuovo copy and paste) tiene a sottolineare Repubblica:

“il giovane aveva anche una certa professionalità: sondava i prezzi migliori nei supermercati per massimizzare i profitti, era assai attento ai gusti della clientela. Insomma, ha un talento naturale per il marketing e di fronte a sé aveva un mercato potenziale costituito dai 1.700 allievi dell’istituto moncalierese. Però non ha fatto i conti con un parametro: le regole”.

Ecco, siamo al punto: le regole. Che ci sono, e vanno rispettate. Lo sappiamo, no? Le regole non si discutono, si applicano. Però, fatemi dire due cose.

C’è stato un tempo nel quale ho pensato di diventare davvero avvocato. Poi m’è passata, ma se io fossi lo scadente avvocato che non sono ora, mi appellerei alla clemenza della corte.

Le regole di cui sopra oggi confliggono ampiamente con l’epoca della sharing economy, cioè quella nebulosa iperattiva di nuovi lavori catalizzati da internet e dalle reti sociali. Abbiamo visto nascere home restaurant e air bed and breakfast e ogni genere di diavoleria che (più o meno serenamente, pacatamente) si lasciava dietro di sé le famose regole.

Adesso chi legge potrebbe anche legittimamente chiedermi: sì vabbe’ e col nostro enomondo che c’entra? Arriva subito l’aggancio in modalità connecting the dots.

1. Qualche giorno fa ero ad una delle molte fiere di settore che affollano novembre. Assaggio una cosa che mi piace e mi accingo a comprarla (è una di quelle rassegne dove si vende, anche). Il produttore però mi deve negare la transazione: quel bene è in mano al distributore locale e quelli come me (portatori sani di partita IVA) non possono comprare direttamente, devono fatturare al distributore. Tutti gli altri sì, io no. (Sia chiaro: sono regole, e vanno rispettate. E io le rispetto, amen).

2. Nel mio inbox arriva un po’ di tutto. Ieri un email mi comunica “l’opportunità interessante che ci ha sottoposto il nostro socio [omissis, nome di un rappresentante locale], da tempo attivissimo nel proporre, come gruppo d’acquisto, la possibilità di accedere a listini privilegiati per comprare a prezzi estremamente favorevoli tutta una ampia gamma di specialità alimentari selezionatissime che comprendono…” [omissis, seguono referenze].

È tutto secondo le regole, no? Più o meno. Il rappresentante che ci fa accedere ai listini privilegiati, è pure lui in regola? Boh, immagino di sì, succede. Tornando al mio studente sconosciuto di Moncalieri, lasciate quindi che ci riprovi: mi appello alla clemenza della corte. L’aria è quella che è, qui ormai tutti fanno un po’ quel che gli pare, tranne io e lo studente di Moncalieri. E ma allora.

[Crediti immagine: Consumatrici.it. La vicenda ha un sequel benaltrista ma irresistibile: “Il ragazzo di 17 anni che nella sua classe di Moncalieri smerciava spezzafame e bevande ai compagni dice: nell’istituto gira droga, ma a loro non fanno niente”. Contiene domande e risposte di autentico genio come “La settimana scorsa ci è ricascato: perché? – Tutti i miei compagni continuavano a chiedermi la roba!” – L’attacco con l’araldo della libera impresa invece m’è tornato in mente leggendo questa storia.]


Pagamenti liquidi. Cuba vuole saldare il suo debito con la Repubblica Ceca fornendo Rum

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Il debito pubblico, o il debito estero con altre entità (paesi stranieri che ci hanno finanziato) potrebbe aver trovato una soluzione tanto originale quanto efficace. Cuba, per esempio, sta trattando un pagamento in natura, usando il suo celebre Rum, per saldare i passivi con la Repubblica Ceca, che ammontano a 276 milioni di dollari. “Il ministro delle finanze Ceco ha annunciato che i cubani intendono proporre questo sistema, durante recenti trattative riguardanti il problema”, si legge su Bbc.com.

Data la situazione debitoria italiana, e l’abbondanza di beni liquidi che arricchiscono notoriamente il nostro belpaese, è appena il caso di segnalare all’amatissimo neopresidente del Consiglio Gentiloni questa notevole opportunità: liquidiamo i passivi con Barolo e Brunello? La maggiore difficoltà connessa è che, prima, dovremmo nazionalizzare, alla maniera cubana-comunista, qualche cantina. Insomma, l’idea potrebbe essere buona, ma per noi difficilmente praticabile.

Per tornare all’esempio cubano, ci tocca peraltro riportare, anche, che “Praga tuttavia preferirebbe avere almeno un po’ di soldi in contanti”. Da quel che leggo, secondo me significa “ni”: forza Cuba, pare che l’idea funzioni. Tra gli altri beni in natura Praga ha respinto, inoltre, l’offerta di medicinali cubani, che mancherebbero di requisiti di idoneità di livello europeo. A ‘sti punti mi permetto io un suggerimento: e i sigari? Compagni, avete pensato ad offrire i vostri mitici sigari?

[Immagine – crediti]

Lo Champagne deve avere la bollicina grossa e si beve nella flûte. Perché tutto quel che sai è falso

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Appena raggiungi un punto fermo arriva qualcuno che ti smonta. L’enomondo non si salva da questo fenomeno e difatti ecco The Guardian che, in questo articolo, ci demolisce le residue certezze: “uno studio rivela che lo Champagne con le bolle grosse è più buono”.

Qualsiasi corso vinoso che avete frequentato vi ha spiegato che la bollicina fine, piccola, col suo perlage elegante, è segno di finezza per lo spumante in generale – e Champagne in particolare. E invece adesso no: Gérard Liger-Belair, scienziato in forza all’Università di Reims, ha evidenziato che la maggiore dimensione della bollicina favorisce l’espressione degli elementi aromatici. Quindi nella spericolata interpretazione dell’articolo migliorerebbe il sapore.

Come se non bastasse, nell’articolo si indica anche il bicchiere a forma di flûte come il migliore per lo Champagne. Con gran scorno per tutti noi che vedevamo nella flûte una specie di barbarie applicata allo spumante – anzi, quella parte della lista nozze è finita da tempo nella campana del vetro riciclato, in molte famiglie di enofili. Niente, contrordine, per lo stesso motivo (lo sviluppo degli aromi in presenza di bolle grosse) serve la flûte.

Noi che siamo antiscientifici e passatisti, manco a dirlo, ci ribelliamo. A parte il fatto che la connessione “apertura aromatica-qualità migliore” pare appunto forzata, verrebbe proprio da pensare che questa si migliora, guarda caso, con un calice ben ampio. Dannati inglesi (del Guardian), che ne sanno loro.

Post scriptum con note di stile. Probabilmente flûte andrebbe declinato al maschile perché parola straniera quindi in italiano neutra, ma non ci riesco. Gli inglesi invece ne sanno a pacchi perché hanno condizionato gran parte del mercato dei vini di qualità ma mi piaceva chiudere in modalità ggentista. Resta il fatto che io la flûte non la voglio usare. Crediti immagine: Rivoligiovani.it.

Un bel giorno è successo che l’etica è entrata nel dibattito sul vino

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Un bel giorno è successo che l’etica è entrata nel dibattito sul vino. È arrivata da lontano, perché fare vino è un atto agricolo e l’agricoltura ha cominciato da tempo ad interrogarsi sui punti etici del suo lavoro: l’ecologia, innanzitutto. Quindi è stato inevitabile, necessario, e giusto, che il produrre vino si ritrovasse a fare i conti con l’etica, nonostante alcune conseguenze indesiderabili: un certo talebanesimo, l’intolleranza, la difficoltà a dialogare con chi non ne vuol sapere di quel che si definisce, per esempio, naturale.

Nonostante tutto chi fa vino, chi più chi meno, chi per convinzione e chi (ammettiamolo) per ragioni di marketing, si confronta con la visione etica-ecologica connessa alla produzione. Potremmo dire, quindi, che la tendenza è positiva.

Tuttavia dal mio punto di vista siamo ancora ad un punto incerto della traversata, e le contraddizioni interne al sistema a volte sono dure da accettare. Dico “dal mio punto di vista” intendendo la mia funzione di commerciante, siccome questo sono, un commerciante di vino. Io sono un anello della catena, ed ha senso che anche uno come me si interroghi: che sto facendo, io, per tutto questo? Sto dirigendo il mio lavoro verso un qualche tipo di sostenibilità, sono un interprete valido delle istanze etiche di chi produce? Insomma: come mi colloco io in tutto questo?

Parlo di me, ma parlo di quelli come me. I commercianti sono un canale adeguato e coerente con questa trasformazione/visione?

La risposta (strano a dirsi) è facile. Dipende: qualcuno sì, qualcuno no. Il fatto è che il termine “commerciante” è vago, perché nella filiera identifica alternativamente l’enotecaro indie (come forse avrete capito quello sono io) oppure il punto vendita interno ad un supermercato. Questi due luoghi non sono esattamente identici.

Questo mi serve, ora, per spostare almeno un po’ la responsabilità della filiera in capo a chi produce vino, e non a chi lo vende. Perché arrivati a questo punto della lettura posso svelarvi: il mio è un rant, cioè uno di quei post in cui il blogger si lagna.

Quindi adesso rilancio. Chi fa vino, magari in modo naturale ed etico, in che misura dovrebbe curare la sua filiera? È normale darsi un meraviglioso (dico sinceramente) codice etico, salvo poi affidare quel prodotto ad un canale di vendita che di etica se ne sbatte?

Come ogni rant che si rispetti tutti questi interrogativi sono nati, in modalità connetti-i-puntini, avendo osservato di recente eventi marginalissimi ma anche noti: il vino naturale piazzato su un scaffale da GDO, quel genere di distribuzione che, ecologicamente parlando, non ha nulla da dire. Io capisco che siamo, tutti quanti, immersi in una situazione di mercato nella quale è molto, molto difficile permettersi di essere selettivi nei confronti dei clienti – e diciamolo, finanziariamente parlando non è neppure raccomandabile.

Resta, per me, la visione di uno scenario contraddittorio, nel quale le istanze etiche di chi è naturale, bio, punk, alternativo (trovate voi una parola che vi piace) finiscono per interrompersi nel momento in cui quel vino esce dalla cantina. Probabilmente il tipo di controllo che immagino è solo, tecnicamente, impossibile. Ma questo non diminuisce la durezza della contraddizione.

[Immagine – crediti]

La Slovenia nel bicchiere a Genova. Considerazioni personali e assaggi segnalati

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Sbrighiamo subito un paio di pratiche local-personali: a Genova la sezione Onav da un bel po’ sta avviando una serie di iniziative molto interessanti, animate e piene di contenuti rilevanti. Il responsabile locale, Massimo Ponzanelli, è un amico, e ha il merito di aver messo assieme una squadra di onavisti giovani e motivati, che organizzano eventi, mini rassegne, e tutto quanto serve per affollare positivamente lo scenario vinoso della mia città. Per questo sono andato a “La Slovenia nel bicchiere“, lunedì scorso, con un pre-giudizio positivo che, devo dire, è stato confermato dall’organizzazione generale e, cosa non secondaria, dagli assaggi fatti. L’incontro era in collaborazione con Revija Vino, “rivista slovena di food&wine”.

L’attrattiva era notevole, inoltre, perché forniva l’occasione non comune di una panoramica su un terroir che esprime grande personalità nei suoi vini. Erano presenti declinazioni differenti, peraltro, che variavano tra vinificazioni più radical e viscerali (volevo evitare “naturali” ma come vedete non è facile) e vinificazioni più tradizionali e precisine, ma insomma è stata una panoramica significativa.

palazzo imperiale

A questo proposito è stato utile per me assaggiare anche in compagnia di un altro amico (ve l’avevo detto che finivo per parlare di fatti personali), Yoel Abarbanel, giovane e colto sommelier nonché boss a Les Rouges, uno dei miei (aridagli) locali del cuore. Yoel è stato molto brillante nel notare come alcuni vini rivelassero, più di altri, una certa presenza che potremmo definire, a seconda dei gusti personali, invasiva nell’uso delle tecniche di cantina – ma questo appunto attiene ai gusti personali. Per quanto mi riguarda, ho trovato più espressivi i radical rispetto agli altri.

Di seguito riverso un po’ dei miei appunti. Su 20 produttori e circa 80 vini in assaggio farò per forza qualche ingiustizia, ma serve come riassunto generale. Una precisazione: leggerete qua e là tokay: come forse saprete il termine è sbagliato in quanto non più utilizzabile in etichetta, tuttavia ai tavoli veniva presentato come tale; la denominazione però ora è difforme, molti usano yakot (tokay al contrario, ahem), pochi usano friulano, poi ci sono altre varie denominazioni fantasiose. Insomma uno alla fine dice tokay per brevità.

princic

Tomaž Prinčič. Azienda di 9 ettari nell’area di Goriška Brda, non ha un distributore italiano. Ottimi da subito i bianchi, in particolare il Rebula 2015 che annuncia sia lo stile aziendale che, potrei dire, il mood generale di molti altri vini che assaggerò: vibrante, teso, evoca appena la mela cotogna in maniera attraente. Anche lo Chardonnay 2015 rivela sia la tensione che una certa riconoscibilità del vitigno: qui il vino ha frutti bianchi più dolci in un rincorrersi di eleganza e spirito territoriale (cioè forza e personalità). Prezzi dei bianchi tra 8 e 10 euro. Ottima sorpresa il Pinot Nero 2014, delicato, giocato sulla finezza e l’equilibrio, molto pinot noir: un falso magro, prezzo sui 15 euro.

Svetlik. A questo tavolo era possibile assaggiare due annate di Rebula, e la versione 2012 mi consente, dopo l’assaggio precedente, di verificare le notevoli capacità di affinamento: il colore intenso e quasi ambrato annuncia un vino importante, complesso, dove la stratificazione sia olfattiva che gustativa garantisce un assaggio di grande piacere. Prezzo conseguente, oltre 20 euro. In Italia mi risulta distribuito da Proposta Vini.

Reya. Produttore sui 10 ettari, arrivato alla terza generazione, per la distribuzione italiana citofonare Luka Bresciani (Wine&Beer). Volendo fare una (difficile) scelta segnalo un Tokay 2015 floreale, ampio, nuovamente finezza e intensità. E che buono quel Cabernet Franc 2013 ancora molto varietale e fresco, con tannini vispi e con grande soddisfazione di beva.

Rojac. “Si ricerca la potenza”, dice la persona dietro al tavolo. Io, alquanto sensibile al fascino di quel genere, sono assai favorevolmente colpito dal Refosco 2011, un po’ dark con profusione di frutti e spezie. Lo assaggio in compagnia di Pietro che ne trova il descrittore definitivo, “è un vino dettoriano”, e per me la questione è chiusa qui. Prezzo sui 30 euro. Al di là del sito laconico non conosco la distribuzione italiana.

Bužinel. Ci sono anche bollicine – metodo classico, in questo caso: Karlo 2013 è composto di ribolla, chardonnay, pinot nero. Fresco di mela e pera, ampio, estroverso. Bene anche il loro Tokay 2015 molto “frutta-e-morbidezza”, qui appunto siamo sul genere un po’ più moderno.

movia

Movia. Definibile quasi una gloria locale, se non altro perché distribuito dalla genovese Velier. Potrei cavarmela dicendo che ogni vino assaggiato a questo tavolo meriterebbe lunghe e felici recensioni. Ma scegliendo: glorioso il Friulano 2015, memorabile per erbe aromatiche e morbidezza. Pinot Grigio 2012 da standing ovation: dieci giorni di macerazione gli donano grassezza, erbe aromatiche, quasi macchia mediterranea, beva complessa e appassionante. Considerato il numero ingente di descrittori bizzarri che ho infilato nei miei appunti (“finale tra camomilla e tè”) direi uno degli assaggi del giorno. I due rossi provati di seguito sono, se possibile, anche più iperbolici.

Sutor. Una solenne Malvasia Istriana 2012 ha passato un anno in legno, e oggi esibisce fiera un profumo ampio e profondo, tra la salvia e il mare, davvero un assaggio suggestivo per lunghezza e classe. Prezzo sui 14 euro.

Medot. Chiudo segnalando un altro metodo classico, 5 anni di presa di spuma, che si distingue particolarmente per profondità, direi quasi concettuosità: importante, serio, tanto più interessante se paragonato al loro millesimato che ha rappresentato, invece, una delusione perché appariva stanco e fuori forma. Per dire che qualche etichetta criticabile s’è anche intravista. Ma erano davvero poche, tutto sommato.

Produttori che non ti aspettavi. Quelli che si vergognano del loro vino

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E poi succede che qualcuno si vergogni del vino che fa. Succede cioè che un produttore, più o meno all’improvviso, si accorga di avere a listino un vino che (secondo lui) è fuori trend, fuori moda o fuori chissacché. Quindi nascono storie imbarazzanti o buffe, tipo queste che, manco a dirlo, ho vissuto di persona. I nomi sono stati cambiati per proteggere gli innocenti, io sono esattamente io.

Scena 1. Io e un rappresentante. Un foglio di ordini aperto sul tavolo, interno giorno di un’enoteca.
Io: allora mi mandi la vendemmia 2015.
Rappresentante: no, abbiamo ancora il 2014, Mario [nome fittizio del produttore] dice che il ’15 non lo soddisfa e lo mette in giro l’anno prossimo.
Io: raro caso di produttore contento del ’14 e insoddisfatto dal ’15.
Rappr: non me ne parlare. Dice che è troppo fruttato.
Io: eh?
Rappr: hai capito bene. È troppo fruit bomb, non assomiglia allo stile naturale che Mario intende…
Io: cioè qui la situazione ci sta sfuggendo di mano, lo capisci? Adesso siamo al punto che quando un vino è troppo fruttato non va più bene?
Rappr: la situazione c’è sfuggita di mano da un pezzo.

Scena 2. Io e un produttore nella sua cantina. Alcune bottiglie aperte, due bicchieri, il mio taccuino per gli appunti.
Produttore: alla fine ci sarebbe anche un cabernet sauvignon, se lo vuoi assaggiare.
Io: certo che sì – non ricordavo che avessi anche un cab.
Produttore (timidamente): ma… vedi, è una vigna messa nel 1994.
Io: Quindi?
Produttore (si gira da un’altra parte): …perché in quegli anni sai, il cabernet si metteva… cioè andava bene…
Io (carogna): mi risulta che il cab lo mettano pure oggi.
Produttore (guarda il soffitto): …perché in quegli anni anche la barrique andava molto e allora, sai, per il mercato inglese…
Io (carogna che ha già capito dove si va a parare): eh certo, cosa vuoi che ne capiscano gli inglesi di vino.
Produttore (ridestato dalla mia carognitudine): ma no! Voglio dire: quello era un vino anni ’90, oggi vanno altre cose!
Io: il punto è se questo cabernet sauvignon è buono o no, Mario.
Produttore: mah… quelli del Gambero ci volevano dare i tre bicchieri ma io non ho mandato i campioni, non volevo che premiassero proprio quello.
Io: tu non sei mica normale, Mario.

Scena 3. Io e un produttore (col quale ho MOLTA confidenza). Ad un tavolo di una fiera medio grande. Diciamo tipo Piacenza, diciamo tipo Fivi. Molte bottiglie sul tavolo, ma ne manca una.
Io: ma come mai non hai portato il tuo Poggio al Tombolo??
Produttore (ostenta amnesia): cosa? Quale?
Io: il Poggio al Tombolo 2013. Quello che ti ho preso ancora nell’ultimo ordine, non l’hai portato. Però hai sul tavolo il Salto del Fosso 2014. Ma cosa diav?
Produttore (ha ritrovato la memoria): il Poggio non mi rappresenta, non rappresenta la mia filosofia. È meglio il Salto ’14.
Io (carogna alle solite): da quando esattamente tu hai una filosofia?
Produttore: lo sai cosa voglio dire. Il Salto del Fosso 2014 è il genere di vino che voglio fare da adesso in poi.
Io: ti faccio presente che quel 2014 è un 84/100 mentre il tuo vino di punta è un 90/100 anche nelle annate sfigate.
Produttore (sarcastico): ah ecco, tu e i tuoi punteggi…
Io: ah ecco, tu e il tuo vino minimalista. Adesso ci manca solo che mi dici che non produrrai più il Poggio.
Produttore: ecco, stavo appunto per dirtelo.

[Sipario]

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